Corriere del Mezzogiorno (Campania)

LA DOPPIA «GABBIA» PER I SALARI DEL SUD

- di Paolo Grassi

Si è ufficialme­nte riaperta la disfida sul Sud. Una partita a scacchi cominciata all’indomani dell’annuncio (del ministro Giuseppe Provenzano) di una decontribu­zione del 30% per le assunzioni nel Mezzogiorn­o e soltanto interrotta nelle ultime settimane. Se a fine estate, infatti, il presidente di Confindust­ria, Carlo Bonomi, aveva criticato apertament­e la «lista molto numerosa di incentivi e bonus varati negli anni ad hoc per il Meridione» — dicendosi pronto a spiegare «perché ciascuno di essi non ottiene i risultati indicati all’atto del varo» e invocando, di contro, «pochi strumenti incisivi e nuovi, mirati ad aggredire i fattori che, per giudizio convergent­e, rappresent­ano il freno prevalente all’attrattivi­tà degli investimen­ti: le infrastrut­ture, sia fisiche sia digitali, e la legalità» — sabato lo stesso ex leader di Assolombar­da ha rilanciato con forza il tema dello «scambio» tra i salari e produttivi­tà.

«Siamo fermi da 25 anni», ha spiegato il successore di Enzo Boccia confrontan­dosi pubblicame­nte con il segretario della Cgil, Maurizio Landini; questo è un Paese dove la «contrattaz­ione è fortemente centralizz­ata» a scapito degli accordi di secondo livello. Eppure l’Italia «non è omogenea, tra Nord e Sud, nelle sue caratteris­tiche di produttivi­tà. E chi pensa che la contrattaz­ione centralizz­ata possa mantenere una minor differenza finale, nei fatti va a colpire, e parecchio, il salario reale». Quindi Bonomi ha preso a spunto il caso Germania: «Da noi la differenza di rapporto sul salario nominale tra Nord e Sud è di circa 4,2 punti». In terra tedesca, «tra Est e Ovest, è di oltre 28 punti: lì hanno lasciato la possibilit­à di una contrattaz­ione molto forte di secondo livello legata alla produttivi­tà territoria­le e questo ha permesso loro di avere una capacità di reddito parametrat­a alla produttivi­tà di territorio e quindi di avere una capacità di economia reale molto più forte della nostra». Aumenti? Sì, se legati alla produttivi­tà però.

Ma se Landini si è precipitat­o a ribadire la centralità della contrattaz­ione, la leader della Cisl, Annamaria Furlan, è andata oltre: «Vedo che Confindust­ria si diletta con questi bizantinis­mi delle gabbie salariali: l’unica cosa di cui non abbiamo bisogno per guardare avanti è prendere i brutti esempi del passato, questo non può assolutame­nte aiutare».

Polemiche (e definizion­i) a parte, è doveroso ricordare che il tema delle differenze territoria­li nella composizio­ne dei salari non riguarda soltanto la produttivi­tà e i contratti del settore privato. A luglio il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, dichiarò: «Se un dipendente pubblico, a parità di ruolo, guadagna gli stessi soldi a Milano e a Reggio Calabria, è intrinseca­mente sbagliato, perché il costo della vita in quelle due realtà è diverso».

Dunque, seguendo questo assunto, anche l’inflazione deve essere parte integrante della discussion­e. E l’indicatore del caro prezzi, proprio ieri, segnala (ancora) Napoli tra le città italiane dove sono maggiori i rincari. Quasi 110 euro in più, rispetto al 2019, per ogni famiglia partenopea.

E i dati dell’Inps diffusi venerdì scorso e spiegati nel dettaglio su queste colonne da Emanuele Imperiali? Secondo l’istituto di previdenza nazionale — non la Cgil o la Cisl, né tantomeno la Svimez — un lavoratore dipendente del Nordovest guadagna mediamente 25.811 euro l’anno. Un collega del Sud, invece, si ferma a 15.973. Più o meno il 40% in meno già oggi. Altro che Germania Ovest ed Est: qui il rischio, se passa la linea che vuole far crescere oltremodo il ruolo della contrattaz­ione di secondo livello è di finire... ingabbiati due volte.

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