Corriere del Mezzogiorno (Campania)
LA DOPPIA «GABBIA» PER I SALARI DEL SUD
Si è ufficialmente riaperta la disfida sul Sud. Una partita a scacchi cominciata all’indomani dell’annuncio (del ministro Giuseppe Provenzano) di una decontribuzione del 30% per le assunzioni nel Mezzogiorno e soltanto interrotta nelle ultime settimane. Se a fine estate, infatti, il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, aveva criticato apertamente la «lista molto numerosa di incentivi e bonus varati negli anni ad hoc per il Meridione» — dicendosi pronto a spiegare «perché ciascuno di essi non ottiene i risultati indicati all’atto del varo» e invocando, di contro, «pochi strumenti incisivi e nuovi, mirati ad aggredire i fattori che, per giudizio convergente, rappresentano il freno prevalente all’attrattività degli investimenti: le infrastrutture, sia fisiche sia digitali, e la legalità» — sabato lo stesso ex leader di Assolombarda ha rilanciato con forza il tema dello «scambio» tra i salari e produttività.
«Siamo fermi da 25 anni», ha spiegato il successore di Enzo Boccia confrontandosi pubblicamente con il segretario della Cgil, Maurizio Landini; questo è un Paese dove la «contrattazione è fortemente centralizzata» a scapito degli accordi di secondo livello. Eppure l’Italia «non è omogenea, tra Nord e Sud, nelle sue caratteristiche di produttività. E chi pensa che la contrattazione centralizzata possa mantenere una minor differenza finale, nei fatti va a colpire, e parecchio, il salario reale». Quindi Bonomi ha preso a spunto il caso Germania: «Da noi la differenza di rapporto sul salario nominale tra Nord e Sud è di circa 4,2 punti». In terra tedesca, «tra Est e Ovest, è di oltre 28 punti: lì hanno lasciato la possibilità di una contrattazione molto forte di secondo livello legata alla produttività territoriale e questo ha permesso loro di avere una capacità di reddito parametrata alla produttività di territorio e quindi di avere una capacità di economia reale molto più forte della nostra». Aumenti? Sì, se legati alla produttività però.
Ma se Landini si è precipitato a ribadire la centralità della contrattazione, la leader della Cisl, Annamaria Furlan, è andata oltre: «Vedo che Confindustria si diletta con questi bizantinismi delle gabbie salariali: l’unica cosa di cui non abbiamo bisogno per guardare avanti è prendere i brutti esempi del passato, questo non può assolutamente aiutare».
Polemiche (e definizioni) a parte, è doveroso ricordare che il tema delle differenze territoriali nella composizione dei salari non riguarda soltanto la produttività e i contratti del settore privato. A luglio il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, dichiarò: «Se un dipendente pubblico, a parità di ruolo, guadagna gli stessi soldi a Milano e a Reggio Calabria, è intrinsecamente sbagliato, perché il costo della vita in quelle due realtà è diverso».
Dunque, seguendo questo assunto, anche l’inflazione deve essere parte integrante della discussione. E l’indicatore del caro prezzi, proprio ieri, segnala (ancora) Napoli tra le città italiane dove sono maggiori i rincari. Quasi 110 euro in più, rispetto al 2019, per ogni famiglia partenopea.
E i dati dell’Inps diffusi venerdì scorso e spiegati nel dettaglio su queste colonne da Emanuele Imperiali? Secondo l’istituto di previdenza nazionale — non la Cgil o la Cisl, né tantomeno la Svimez — un lavoratore dipendente del Nordovest guadagna mediamente 25.811 euro l’anno. Un collega del Sud, invece, si ferma a 15.973. Più o meno il 40% in meno già oggi. Altro che Germania Ovest ed Est: qui il rischio, se passa la linea che vuole far crescere oltremodo il ruolo della contrattazione di secondo livello è di finire... ingabbiati due volte.