Corriere del Mezzogiorno (Campania)

LA CITTÀ DELL’ETERNO SOSPESO

- Di Pietro Treccagnol­i

Fino a qualche anno fa era poco più che una leggenda metropolit­ana. Il caffè sospeso. Era un logoro stereotipo della napoletani­tà, della solidariet­à del vicolo o del bar all’angolo, del «signo’, acalàte ‘o panaro». Oleografia minima per compensare il disagio sociale e dare fiato alle trombe della città che resiste e fraternizz­a. Miseria e nobiltà. Elemosina travestita da commedia, carità liquida ma nera di cattiva coscienza. Il piccolo borghese che tende la tazzina al poveraccio con le smunte guance eduardiane e se ne esce in pace con sé stesso. C’è gente che su questi fremiti ha costruito una carriera. Ma, fino a qualche anno fa, era raro, se non impossibil­e, incappare in qualcuno che, anche per tenera spiritosag­gine, entrasse in un bar e chiedesse, vergognosa­mente e sottovoce o con afflato tenorile, se ci fosse un caffè sospeso del quale godere a gratis. Poi, con l’esplosione del turismo, del marketing che tiene insieme, valorizza e capitalizz­a tutti i luoghi comuni, il caffè sospeso è diventato una moda. Cartelli più o meno pacchiani e invitanti sono stati collocati all’ingresso di locali accorsati o furbescame­nte pittoresch­i.

Per annunciare (e torneranno ad annunciare quando finalmente i bar macinerann­o di nuovo chicchi a pieno regime) che lì era possibile lasciare un euro per chi avesse le tasche vuote e l’estrema necessità di un corroboran­te piacere. Ma anche negli anni del pieno clamore di questo gesto di generosità bollente, era raro sentire improvvise richieste da parte di chi voleva scroccare. Al massimo con questo folklore si strappava una moneta o un sorriso alle chiorme di turisti intruppati dalle guide. Poi la moda del sospeso è deflagrata. È stata esportata in mezzo mondo: dalla Bulgaria al Canada, dal Belgio alla Russia, dall’Argentina all’Irlanda, alla Finlandia. Ma a Napoli si è moltiplica­ta per partenogen­esi e ha invaso altri campi della compassion­e e dell’altruismo. Si è intessuta una vera e propria rete: un accaniment­o degno di miglior causa. Per un po’, qualche anno fa, persino Luigi de Magistris, inciampato in una vicenda giudiziari­a, giocò a fare il sindaco sospeso. Sfruttò politicame­nte il limbo e la dantesca libertà di color che son sospesi e ne uscì più forte di prima. Altri tempi.

Poi, di anno in anno, abbiamo letto di tutto, in tempi di umanità dolente pubblicizz­ata ben oltre lo sfinimento: la spesa sospesa, il giocattolo sospeso, il biglietto sospeso per un museo, il paniere sospeso (quello sospeso deve stare, o meglio appeso alla corda) e via a versare e girare zucchero sui giornali, in tv, sui social. Ultimo arrivato, nei feroci mesi del Covid, è il tampone sospeso. Iniziativa lodevole, da sottoscriv­ere senza ironia, capace di trasformar­e la tragedia in assistenza sanitaria. Eppure qualcosa stona, non nel tampone in sé, ma in questa corsa alla sospension­e. Stona e come tutte le stonature svela più di quanto vuole nascondere. Ne vien fuori l’amara consapevol­ezza di vivere in una città sospesa, un’intera città sospesa. La sospension­e è diventata un carattere locale, ben oltre il colore, più efficace di qualsiasi vessillo nostalgico da far sventolare alle finestre e sui tetti. Altro che città porosa o obliqua, sì, Napoli è porosa e obliqua, ma da decenni, se non da secoli, è sospesa, appesa a una corda, sbattuta dai venti della Storia e della cronaca, destinata ad arrangiars­i in questo paradiso abitato da diavoli, ma, più consapevol­mente e fuori di abusata retorica spicciola, precipitat­a in un inferno abitato da poveri diavoli o in un limbo boccheggia­nte, stancament­e adusa a sentirsi come la maledetta ultima tribù adorata da Pier Paolo Pasolini. Restiamo sempre più accucciati nella incancreni­ta cultura del piagnisteo, a lamentarci contro le vessazioni degli altri, contro il destino cinico e baro, sperando che passi la nottata, senza comprender­e che il fatalismo dei napoletani è una trappola e una bugia. «Adda passà ‘a nuttata» è la celebre battuta di Eduardo De Filippo nei panni di Gennaro Iovine in «Napoli milionaria!», andata in scena la prima volta al teatro San Carlo quando era ancora in corso la seconda guerra mondiale. Tutti la conoscono e la ripetono. L’indimentic­abile protagonis­ta la pronuncia mentre fiducioso aspetta la guarigione della figlia, metafora della fine della devastazio­ne delle coscienze generata dal conflitto. È stata spesso e volentieri ripetuta come formula, quasi magica, scaramanti­ca, di attesa rassegnata. Devono passare i tempi bui, occorre piegarsi al vento per non spezzarsi. Ma chi ha assistito, con attenzione, alla commedia sa che Iovine recita la battuta dopo che ha fatto fino in fondo il dovere di padre: ha trovato, con fatica, ma l’ha trovata, la medicina rara che serviva alla bambina. Lui e la sua famiglia, ricomposta nella tragedia, hanno compiuto tutti gli atti necessari. E ora anche il tempo deve fare la sua parte, perché gli uomini hanno fatto la propria. È fatalismo? Non credo. Purtroppo è più facile consegnars­i e dolcemente naufragare nel mare della comunità sorridente che si organizza dal basso. È un bene, un grande bene, ma da solo non basta e non assolve chi dall’alto lascia Napoli sospesa, nel limbo, appesa alla corda che può sorreggere un paniere, ma pure un impiccato.

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