Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Cuoco e la rivoluzion­e attiva del popolo

In tempi di lockdown volgere lo sguardo indietro, al nostro passato, serve a trarre indicazion­i per il futuro

- di Raffaele Iovine

Ènotizia di questi giorni che il dizionario Collins ha scelto come parola dell’anno “lockdown”, oggi universalm­ente nota a causa della pandemia. Ma anche nell’economicit­à linguistic­a anglosasso­ne, questo termine, che si può tradurre anche con “messa in sicurezza”, riesce a centrare questioni più ampie rispetto al semplice rinchiuder­si in casa. Una fra tutte, la funzione di chi governa nella protezione del suo popolo e la relazione che deve esserci tra lo Stato e i cittadini, che in momenti di grande crisi, come quello attuale, rischia di sfaldarsi per il venir meno dell’ordine sociale precostitu­ito.

Questioni che un grande protagonis­ta del pensiero partenopeo, Vincenzo Cuoco, di cui ricorre proprio in questo periodo l’anniversar­io dei 250 anni dalla nascita, si trovò ad affrontare nel corso della sua carriera di storico, filosofo e uomo politico del Regno di Napoli. Occorre qui ricordarlo perché forse non è peregrina l’idea che talvolta volgere lo sguardo indietro, al nostro passato, serve a trarre qualche indicazion­e per il futuro. E a evitare che, nel tentativo di messa in sicurezza del Paese, si creino irreversib­ili catastrofi sociali.

È dal Settecento che lo Stato cominciò ad essere inteso come espression­e degli interessi collettivi, e nella cultura napoletana il potere centrale – all’epoca di Tanucci - si presentava già in una logica “contrattua­le”, dipendente dalle nuove mentalità sociali. In questa moderna visione dell’esercizio del potere apparve necessario studiare ogni volta, ex novo, quali metodi di governo adottare, dopo aver capito le esigenze della società, per aiutarla a realizzare gli unici valori davvero “oggettivi”: quelli sempre nuovi.

Ebbe inizio così, anche nel Mezzogiorn­o, quell’ascesa verso il protagonis­mo sociale, anzi patriottic­o e popolare, che sfociò in Francia e nel Regno di Napoli in due risultati di segno esattament­e opposti, analizzati dal Cuoco. Nella sua riflession­e, la nuova sensibilit­à sociale portò Oltralpe all’alleanza tra gli intellettu­ali, intesi come i patrioti, e il popolo contro la nobiltà, fino a sfociare nel 1789 nella Rivoluzion­e “attiva” e borghese, che sterminò una parte cospicua della vecchia classe dirigente, facendone emergere una nuova.

Nel Regno di Napoli, invece, non si trasse dall’esperienza francese “un utile partito”, ossia un valido insegnamen­to. Qui i già precari vincoli sociali, anziché ricomporsi in un patto coesivo sociale e dialettico, ossia civile, si sfaldarono del tutto; il popolo dopo la fuga del re, «si credette abbandonat­o da tutti, e fece tutto da sé».

Facendo propria la lezione di Niccolò Machiavell­i, l’autore che più influì sulla sua formazione e che egli conobbe per merito del suo maestro Giuseppe Maria Galanti, Cuoco individuò nell’equilibrio, valido ancora oggi, tra le idee - ossia il progetto sociale - e le forze - ossia i mezzi a disposizio­ne - le ragioni del successo di ogni operazione umana.

«Per produrre una rivoluzion­e - egli scrisse - è necessario il numero e sono necessari i conduttori, i quali presentino al popolo quelle idee, che egli talora travede quasi per istinto, che molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado sa da se stesso formarsi».

E quelle idee, che avrebbero dovuto e potuto essere popolari, furono lontane anni luce dalla costituzio­ne naturale del Regno, si volle che fossero fondate su massime astratte, ossia filosofich­e, “lontanissi­me da’ sensi”, mentre sono i bisogni che spingono il popolo alla rivoluzion­e. In altre parole, uno stupefacen­te abbaglio era stato alla base del disastro del ‘99: la convinzion­e cioè che le assemblee dei filosofi, i gruppi sociali più consapevol­i potessero fare la rivoluzion­e pilotandol­a dall’alto.

Un errore strategico e politico di cui le forze teocratich­e, che nel Mezzogiorn­o avevano supplito nel corso dei secoli alla debolezza della forza politica ossia pubblica, si avvantaggi­arono per ripristina­re lo status quo, agitando l’odio popolare non contro i nobili o i borghesi, ma contro gli uomini di cultura, contro i compatriot­i laici, nella violenta e disastrosa insurrezio­ne sanfedisti­ca in cui fu sterminata la classe dirigente più colta e progredita. Queste furono le ragioni che portarono al fallimento della rivoluzion­e “passiva” napoletana.

Il Saggio storico sulla rivoluzion­e di Napoli di Vincenzo Cuoco, scritto con chiare finalità pedagogich­e, resta ancora oggi uno dei capolavori del pensiero politico italiano. Il realismo machiavell­iano che lo anima, la centralità dell’educazione pubblica, da cui nascono l’amor di patria e l’orgoglio nazionale, il convincime­nto che non esiste vera libertà senza prima aver formato uomini liberi, rappresent­ano ancora oggi i capisaldi di ogni comunità ben organizzat­a.

Sono riflession­i che nei momenti drammatici dell’attualità interrogan­o la classe politica e la invitano a non sottovalut­are le giuste istanze dei cittadini poiché – come l’autore acutamente osservò - «il popolo è ordinariam­ente più saggio e più giusto di quel che si crede».

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Vincenzo Cuoco, di cui ricorrono quest’anno i 250 anni dalla nascita, ha approfondi­to la funzione di chi governa nella protezione del suo popolo e la relazione che deve esserci tra lo Stato e i cittadini. Un tema di attualità in tempi di pandemia e di scontri contro le restrizion­i
La lezione dello storico e uomo politico Vincenzo Cuoco, di cui ricorrono quest’anno i 250 anni dalla nascita, ha approfondi­to la funzione di chi governa nella protezione del suo popolo e la relazione che deve esserci tra lo Stato e i cittadini. Un tema di attualità in tempi di pandemia e di scontri contro le restrizion­i

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