Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«L’isolamento e le donne Così la violenza è aumentata»
Rosa di Matteo: negli ultimi anni parabola discendente dei centri
Rosa di Matteo è la responsabile del Centro Antiviolenza Aurora e presidente dell’Associazione Arcidonna Napoli. Sin dagli anni Novanta si è occupata di violenza sulle donne ed è tra le voci più accreditate sul tema a Napoli e in Italia.
Il 25 novembre è la giornata dedicata al contrasto della violenza sulle donne. Qual è il bilancio del 2020, vista l’impennata di richieste d’aiuto delle donne costrette dal lockdown tra le mura di casa?
«I dati del numero di emergenza nazionale 1.522 hanno mostrato un quadro preoccupante: un aumento di richieste del 119%, tra marzo e giugno 2020. Un incremento che non ha risparmiato Napoli».
Una pandemia che si è sommata a un’altra pandemia, così come l’Oms già da anni definisce la violenza sulle donne?
«Sì. Le vittime di violenza non hanno trovato una risposta adeguata per molte ragioni, legate sia alle restrizioni del lockdown sia a una scarsa risposta istituzionale. Viviamo un periodo travagliato della vita Centri Antiviolenza e, nell’ultimo anno e mezzo, abbiamo assistito al deperimento di un patrimonio accumulato con fatica».
In che senso?
«La storia recente dei Centri antiviolenza a Napoli può essere descritta come una parabola discendente, che è arrivata al grado zero con una velocità incredibile. Per capirne le cause bisogna partire da lontano, da quando nel 1997, durante la sindacatura Bassolino, è nato il primo Cav comunale, su iniziativa di varie associazioni femministe tra cui Arcidonna. Il comune ci mise a disposizione un locale e la linea telefonica presso il Centro di Documentazione Condizione Donna. Si lavorava con finanziamenti sporadici e inadeguati, e il Cav si è sempre retto sul volontariato, sull’autofinanziamento e la solidarietà tra donne, riuscendo ad assicurare accoglienza e presa in carico per tutto l’anno, compreso agosto e le “feste comandate”. Erano anni difficili, in cui parlare di violenza sulle donne ed essere femministe suscitava scarsa simpatia e molta indifferenza. Ma questo non impedì alle vittime di violenza di fare di quel luogo un punto di riferimento. Poi altre associazioni femministe si dedicarono al tema in maniera organica, nacquero altri centri scrivendo così una geografia dei Cav che riuscì a coprire l’intero territorio: Arcidonna, prima a Posillipo e poi a Montecalvario, le Kassandre a Ponticelli, Dream Team a Scampia, Maddalena a Pianura».
Una mappa che fu ripresa dai progetti dei bandi comunali.
«Sì. Questa distribuzione accoglieva due domande delle donne: la prossimità territoriale del servizio e allo stesso tempo quella di poter uscire dai propri ambiti e trovare accoglienza altrove. Con un lavoro certosino, i Cav hanno tessuto nei propri territori reti che includevano non soltanto le istituzioni ma anche altre realtà. Di esperienza in esperienza, abbiamo superato ostacoli e velocizzato i tempi, con ricadute positive sulla vita e sulla salute delle donne e dei loro figli.
Il Piano nazionale dei centri antiviolenza e relativi finanziamenti andava nella stessa direzione. Cosa non ha funzionato a Napoli?
«Dal 2013, anno del Piano straordinario del governo che ha aperto la strada a contributi finanziari consistenti, è proliferato ovunque un certo “professionismo dell’antiviolenza” fondato sull’improvvisazione. Gli stessi bandi, nella formulazione, hanno adottato un approccio “neutro” che ha svuotato la fisionomia e le metodologie dei CAV. E constatiamo la partecipazione di enti che hanno nei propri statuti una miriade di attività. L’ultimo bando se l’è aggiudicato un ente che ha il contrasto alla violenza sulle donne al 17° posto tra le proprie attività. Le istituzioni, in parecchi casi, si accontentano dell’autocertificazione».
Quali sono secondo te le altre pecche dei bandi?
«Innanzi tutto un impianto che traccia un profilo dei Cav labile e che non tiene conto del loro ruolo culturale e politico. Poi vi sono meccanismi perversi, ad esempio il punteggio destinato all’offerta economica più vantaggiosa, che in un servizio alla persona si ripercuote sullo standard quali-quantitativo delle risorse professionali. O quello che consente di mutuare competenze da altre associazioni non direttamente impegnate nei territori. Non ha fatto eccezione il Comune di Napoli: in un
” Dal 2013 molti bandi sono stati vinti da associazioni non sempre in grado
anno e mezzo ha battuto ogni record negativo, passando da cinque CAV retti da associazioni femministe ad altrettanti affidati ad associazioni per così dire “neutre” e multifunzione, per approdare infine a nessun CAV. Ultimo, ma molto importante, la durata dell’affidamento in relazione ai fondi di programma, finiti i quali nessun ente aggiudicatario è disponibile a svolgere lavoro volontario, cosa capitata in passato per i Cav costruiti e gestiti da associazioni di donne».
Un risultato disperante. «Certo. Dei cinque CAV comunali, da luglio l’unico rimasto in vita, Montecalvario, è chiuso. E lo testimoniano le donne che si rivolgono inutilmente al numero dedicato».
E il Comune come pensa di ovviare a questa mancanza?
«La rete storica dei centri è stata sollecitata dall’assessora alle Pari Opportunità a dare disponibilità, vista l’importanza cruciale della territorialità durante il lockdown. Tale disponibilità accordata è stata però ignorata, e abbiamo appreso dai giornali che vi era una manifestazione d’interesse per il reperimento delle strutture di quarantena, affidate poi in gestione al CAV centrale, senza nessun collegamento né con la rete degli altri Centri né con le case rifugio per i percorsi successivi».
Se ho capito bene, le donne vittime di violenza oggi, possono fare affidamento solo sulla rete storica femminista dei Cav?
«Sì, e dulcis in fundo, a fine ottobre il Comune di Napoli ha indetto una conferenza stampa annunciando la firma di un protocollo d’intesa con un’associazione per promuovere 10 corsi gratuiti di formazione per estetiste, dedicati a donne vittime di violenza». Altri tempi, altri progetti? «È chiaro che sui Cav si è consumata una mera operazione di facciata da parte di questa amministrazione. Operazione che va dall’esiguità delle risorse alla brevità dei tempi di realizzazione dei programmi, scollati dalla domanda, dalla disattenzione al messaggio forte e politico dei Cav fino al disinteresse oggettivo per le donne. Eppure, è la stessa amministrazione che approvò una delibera con la quale dichiarava l’intenzione di costituirsi parte civile nei processi per i reati di violenza contro le donne, le cui eventuali somme di risarcimento sarebbero state destinate ai servizi dedicati all’antiviolenza della città. Una decisione foriera di promesse che sono state tutte disattese».
Dei 5 Cav comunali l’ultimo rimasto aperto ha chiuso a luglio