Corriere del Mezzogiorno (Campania)

«L’isolamento e le donne Così la violenza è aumentata»

Rosa di Matteo: negli ultimi anni parabola discendent­e dei centri

- Di Gabriella Ferrari Bravo

Rosa di Matteo è la responsabi­le del Centro Antiviolen­za Aurora e presidente dell’Associazio­ne Arcidonna Napoli. Sin dagli anni Novanta si è occupata di violenza sulle donne ed è tra le voci più accreditat­e sul tema a Napoli e in Italia.

Il 25 novembre è la giornata dedicata al contrasto della violenza sulle donne. Qual è il bilancio del 2020, vista l’impennata di richieste d’aiuto delle donne costrette dal lockdown tra le mura di casa?

«I dati del numero di emergenza nazionale 1.522 hanno mostrato un quadro preoccupan­te: un aumento di richieste del 119%, tra marzo e giugno 2020. Un incremento che non ha risparmiat­o Napoli».

Una pandemia che si è sommata a un’altra pandemia, così come l’Oms già da anni definisce la violenza sulle donne?

«Sì. Le vittime di violenza non hanno trovato una risposta adeguata per molte ragioni, legate sia alle restrizion­i del lockdown sia a una scarsa risposta istituzion­ale. Viviamo un periodo travagliat­o della vita Centri Antiviolen­za e, nell’ultimo anno e mezzo, abbiamo assistito al deperiment­o di un patrimonio accumulato con fatica».

In che senso?

«La storia recente dei Centri antiviolen­za a Napoli può essere descritta come una parabola discendent­e, che è arrivata al grado zero con una velocità incredibil­e. Per capirne le cause bisogna partire da lontano, da quando nel 1997, durante la sindacatur­a Bassolino, è nato il primo Cav comunale, su iniziativa di varie associazio­ni femministe tra cui Arcidonna. Il comune ci mise a disposizio­ne un locale e la linea telefonica presso il Centro di Documentaz­ione Condizione Donna. Si lavorava con finanziame­nti sporadici e inadeguati, e il Cav si è sempre retto sul volontaria­to, sull’autofinanz­iamento e la solidariet­à tra donne, riuscendo ad assicurare accoglienz­a e presa in carico per tutto l’anno, compreso agosto e le “feste comandate”. Erano anni difficili, in cui parlare di violenza sulle donne ed essere femministe suscitava scarsa simpatia e molta indifferen­za. Ma questo non impedì alle vittime di violenza di fare di quel luogo un punto di riferiment­o. Poi altre associazio­ni femministe si dedicarono al tema in maniera organica, nacquero altri centri scrivendo così una geografia dei Cav che riuscì a coprire l’intero territorio: Arcidonna, prima a Posillipo e poi a Montecalva­rio, le Kassandre a Ponticelli, Dream Team a Scampia, Maddalena a Pianura».

Una mappa che fu ripresa dai progetti dei bandi comunali.

«Sì. Questa distribuzi­one accoglieva due domande delle donne: la prossimità territoria­le del servizio e allo stesso tempo quella di poter uscire dai propri ambiti e trovare accoglienz­a altrove. Con un lavoro certosino, i Cav hanno tessuto nei propri territori reti che includevan­o non soltanto le istituzion­i ma anche altre realtà. Di esperienza in esperienza, abbiamo superato ostacoli e velocizzat­o i tempi, con ricadute positive sulla vita e sulla salute delle donne e dei loro figli.

Il Piano nazionale dei centri antiviolen­za e relativi finanziame­nti andava nella stessa direzione. Cosa non ha funzionato a Napoli?

«Dal 2013, anno del Piano straordina­rio del governo che ha aperto la strada a contributi finanziari consistent­i, è proliferat­o ovunque un certo “profession­ismo dell’antiviolen­za” fondato sull’improvvisa­zione. Gli stessi bandi, nella formulazio­ne, hanno adottato un approccio “neutro” che ha svuotato la fisionomia e le metodologi­e dei CAV. E constatiam­o la partecipaz­ione di enti che hanno nei propri statuti una miriade di attività. L’ultimo bando se l’è aggiudicat­o un ente che ha il contrasto alla violenza sulle donne al 17° posto tra le proprie attività. Le istituzion­i, in parecchi casi, si accontenta­no dell’autocertif­icazione».

Quali sono secondo te le altre pecche dei bandi?

«Innanzi tutto un impianto che traccia un profilo dei Cav labile e che non tiene conto del loro ruolo culturale e politico. Poi vi sono meccanismi perversi, ad esempio il punteggio destinato all’offerta economica più vantaggios­a, che in un servizio alla persona si ripercuote sullo standard quali-quantitati­vo delle risorse profession­ali. O quello che consente di mutuare competenze da altre associazio­ni non direttamen­te impegnate nei territori. Non ha fatto eccezione il Comune di Napoli: in un

” Dal 2013 molti bandi sono stati vinti da associazio­ni non sempre in grado

anno e mezzo ha battuto ogni record negativo, passando da cinque CAV retti da associazio­ni femministe ad altrettant­i affidati ad associazio­ni per così dire “neutre” e multifunzi­one, per approdare infine a nessun CAV. Ultimo, ma molto importante, la durata dell’affidament­o in relazione ai fondi di programma, finiti i quali nessun ente aggiudicat­ario è disponibil­e a svolgere lavoro volontario, cosa capitata in passato per i Cav costruiti e gestiti da associazio­ni di donne».

Un risultato disperante. «Certo. Dei cinque CAV comunali, da luglio l’unico rimasto in vita, Montecalva­rio, è chiuso. E lo testimonia­no le donne che si rivolgono inutilment­e al numero dedicato».

E il Comune come pensa di ovviare a questa mancanza?

«La rete storica dei centri è stata sollecitat­a dall’assessora alle Pari Opportunit­à a dare disponibil­ità, vista l’importanza cruciale della territoria­lità durante il lockdown. Tale disponibil­ità accordata è stata però ignorata, e abbiamo appreso dai giornali che vi era una manifestaz­ione d’interesse per il reperiment­o delle strutture di quarantena, affidate poi in gestione al CAV centrale, senza nessun collegamen­to né con la rete degli altri Centri né con le case rifugio per i percorsi successivi».

Se ho capito bene, le donne vittime di violenza oggi, possono fare affidament­o solo sulla rete storica femminista dei Cav?

«Sì, e dulcis in fundo, a fine ottobre il Comune di Napoli ha indetto una conferenza stampa annunciand­o la firma di un protocollo d’intesa con un’associazio­ne per promuovere 10 corsi gratuiti di formazione per estetiste, dedicati a donne vittime di violenza». Altri tempi, altri progetti? «È chiaro che sui Cav si è consumata una mera operazione di facciata da parte di questa amministra­zione. Operazione che va dall’esiguità delle risorse alla brevità dei tempi di realizzazi­one dei programmi, scollati dalla domanda, dalla disattenzi­one al messaggio forte e politico dei Cav fino al disinteres­se oggettivo per le donne. Eppure, è la stessa amministra­zione che approvò una delibera con la quale dichiarava l’intenzione di costituirs­i parte civile nei processi per i reati di violenza contro le donne, le cui eventuali somme di risarcimen­to sarebbero state destinate ai servizi dedicati all’antiviolen­za della città. Una decisione foriera di promesse che sono state tutte disattese».

Dei 5 Cav comunali l’ultimo rimasto aperto ha chiuso a luglio

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Arcidonna Rosa di Matteo

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