Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il sisma, Colombo e Tatcher
Pensai fosse il passaggio di un tir a far tremare i vetri della finestra, poi caddero tutti i libri dagli scaffali e il lampadario oscillò paurosamente. Il terremoto! La sera del 23 novembre di quaranta anni fa. Stavo tentando di leggere un complicatissimo libro di Salvatore Veca. Dissi a Vanda che era necessario scendere. Ci precipitammo giù per le scale dal quarto piano preceduti nella fuga dagli inquilini del palazzo. Al terzo piano i primi a scappare furono i gatti della famiglia Lombardi.
L’inquilino del secondo piano, scappato dalla vasca da bagno, era in accappatoio. Giungemmo all’aperto convinti di averla scampata bella, l’ingresso del palazzo mostrava già i segni della lunga scossa. Novanta interminabili secondi. Una eternità. Poi fu un succedersi di voci su quale fosse l’epicentro, sulle scosse che sarebbero seguite, su quelle di assestamento che si sosteneva sarebbero state inevitabili ma avrebbero rimesso ordine nel sottosuolo. A gelarmi non fu il clima serale di Potenza, ottocento metri sul livello del mare, ma le voci confuse su quanto si sosteneva fosse accaduto a Napoli, crolli, distruzioni, morti. Il tempo dei cellulari era di là da venire. Occorreva un telefono. Mi feci coraggio e tornai su. Chiamai mia madre per avere notizie. Le avrei avute solo all’alba. Avrebbe trascorso la notte con mia sorella in macchina. Il terremoto aveva sconvolto Basilicata e Campania. I territori più deboli del Mezzogiorno continentale. Le vittime si contarono a migliaia. Napoli fu ferita, subì danni enormi. I soccorsi nelle zone interne, le aree più colpite, giunsero in ritardo.
Ero segretario regionale del Pci lucano. Con Piero di Siena, giovane intellettuale di Rionero in Vulture, colto e tenace, con Giacomo Schettini, uomo tra i più disinteressati e leali che abbia conosciuto, lavorammo già da quella notte a rimettere in piedi la rete organizzativa del partito lacerata dal sisma. Le settimane successive non furono semplici. Ricordo l’abnegazione con cui le sezioni del partito si impegnarono per portare aiuti nei paesi della montagna potentina, dove i crolli avevano causato distruzioni e vittime. Ricordo il rapporto che Emilio Colombo aveva con la sua terra. La notte del terremoto, lasciando una riunione a Roma con la Thatcher, raggiunse Balvano il comune del potentino in cui era crollata la volta della chiesa, settantasette vittime, molti bambini. Il giorno successivo al sisma Gerardo Chiaromonte era già in Basilicata, volle recarsi a Balvano e ci convinse a restare nella sede del partito lesionata dal terremoto per dare il segno della ripresa della vita in una città dolente. Seguirono settimane in cui dedicammo le nostre energie, malgrado il succedersi delle scosse, al sostegno delle popolazioni colpite. Ci aiutarono i compagni delle organizzazioni della Puglia e della Emilia Romagna.
Con il terremoto avevo già avuto a che fare. Nel 1968, ero stato in Belice con un gruppo di studenti napoletani, tra gli altri Valerio Caprara, per sostenere gli abitanti dei paesi devastati dal sisma. Tra Gibellina e Menfi, a spostare macerie e a mettere su alloggi di emergenza. La ricostruzione di quei paesi andò avanti a rilento. Non a caso Pertini lanciò l’allarme a non fare in Campania come in Belice e a utilizzare al meglio le risorse stanziate per la ricostruzione. Un appello inascoltato. Quando qualche mese dopo lasciai la Basilicata, tornai al lavoro di partito nella città di Napoli segnata dai danni e dalle sofferenze provocate dal sisma. Sindaco della città era Maurizio Valenzi che esprimeva, anche per il vigore fisico, la volontà dei napoletani di reagire alle avversità. Dirigenti del partito, Antonio Bassolino ed Eugenio Donise. Vezio De Lucia,dirigente del ministero dei lavori pubblici per il quale Napolitano aveva ottenuto il comando presso gli uffici di Maurizio Valenzi, coordinava il lavoro teso alla realizzazione del programma di ricostruzione con Geremicca, Imbimbo, Scippa, Visca e la intera giunta. Vezio faceva affidamento per l’organizzazione delle strutture tecniche sull’ufficio studi urbanistici del Comune: giovani tecnici che avevano progettato il piano delle periferie. Alla emergenza si rispose con gli interventi di recupero e riqualificazione previsti da quel piano. Una esperienza che si esaurì con l’uscita di scena della giunta Valenzi.
Poi il baratro. Secondo Pasquale Saraceno il post terremoto determinò il formarsi in Campania di un blocco sociale intorno alle ingenti risorse più forte del tramontato blocco agrario. I risultati? Ben pochi. La possibilità di una redistribuzione più equilibrata dei pesi abitativi, delle funzioni direzionali e di una ricostruzione non ristretta al perimetro della città fu avversata. Scomparve la idea di una programmazione, tutto si ridusse ad una mera elencazione di opere pubbliche. Prevalse il male oscuro di Napoli, l’immobilismo.