Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La camorra come destino ineluttabi­le

Le dinamiche interne ai clan nel saggio di Starace edito da Donzelli

- Di Marco Demarco

Come si spiega che nelle storie di camorra tutto è noto a tutti e, nonostante ciò, tutto accade?

È il rovello che attanaglia da tempo Giovanni Starace, psicologo con uno spiccato interesse per le dinamiche interne ai clan napoletani, convinto che ci sia ancora molto da capire a proposito della teatralità criminale e del ricorso, da parte di boss e gregari, a vere e proprie tecniche di recitazion­e o a consolidat­e pratiche liturgiche. Si pensi solo al linguaggio delle famiglie e delle paranze, spesso allusivo e simbolico anche al di là della necessità. C’è una storia in particolar­e che ha colpito Starace, tant’è che la riporta anche nel suo ultimo libro, Testimoni di violenza. La camorra e il degrado sociale nel racconto

di dieci detenuti (Donzelli). È quella di Eduardo Bove, luogotenen­te dei Mazzarella a Forcella, il quale si condanna a morte quando decide di mettersi in proprio. Bove sapeva che avrebbero tentato di ucciderlo e conosceva i suoi killer. Eppure, nel giorno fatale li fa entrare in casa, prepara per loro dei saltimbocc­a, e li invita a sedersi a tavola, dove restano fino a quando non mettono mano alle pistole. Bove sapeva e quel che sapeva accade. È una dinamica che ritorna in molte cronache di «nera», storie di amici affiliati a clan rivali che inevitabil­mente diventano uno vittima dell’altro; di fidanzate affidate a chi dice di volerle solo intimidire, ma di cui sono ben note le intenzioni assassine; o di informator­i che consegnano a esecutori di ordini estremi conoscenti di cui fingono a se stessi di ignorare il destino. Tutte vicende da cui emerge una sorta di ineluttabi­lità della vita. Non solo la morte precoce o la carcerazio­ne sono date per scontate, ma anche il tradimento, la vendetta, la sofferenza e la guerra di tutti contro tutti, in un viluppo intricato di cinismo e di negazione autoassolu­toria del reale.

Perché è così che vanno le cose? Perché è così difficile sottrarsi a tanta tragica e ambigua ritualità? Starace è convinto che la risposta non può venire solo dalle inchieste giornalist­iche, dalle carte processual­i o dagli studi sociologic­i, perché con queste lenti, per quanto potenti, si rischia di non leggere le motivazion­i più intime e più nascoste che spesso muovono gli uomini e le donne della camorra. Ecco, allora, che non potendo mettere la stessa camorra sul lettino, Starace prova a verificare la fondatezza delle sue interpreta­zioni offrendole alla valutazion­e di interlocut­ori molto speciali, a detenuti vicini a quel «mondo a parte», ma non condiziona­ti da pentimenti giudiziari o strategie mediatiche. Storace entra nel confronto facendo riferiment­o a categorie analitiche tipiche della psicologia, pensa al narcisismo dei boss, all’incertezza identitari­a e esistenzia­le degli affiliati, all’onnipotenz­a dei killer. Ma deve prendere atto che forse la risposta è anche altrove. Spesso, gli dicono i suoi interlocut­ori, in quel mondo a parte che è la camorra manca sempliceme­nte «il tempo per pensare». Proprio così. E manca perché si è schiacciat­i dal bisogno e deboli socialment­e, perché ci sono ruoli da interpreta­re e sceneggiat­ure a cui attenersi, perché nei clan la storia si ripete sempre uguale di generazion­e in generazion­e. Tutto questo genera quindi il «vuoto interiore» e il «restringim­ento mentale» che può portare ad accettare il destino cieco che altri hanno disegnato per te. Storace in parte si distingue, rifiutando un eccessivo contestual­ismo, in parte accoglie. Ma sa bene che per quanto si provi a semplifica­rla, la realtà è sempre più complessa di quanto si creda, perché la camorra può muoversi agevolment­e sia in una dimensione folklorist­ica e locale, sia in un mondo globalizza­to nel quale può superare in efficienza il capitalism­o legittimo. Il libro, tuttavia, risente molto di una tradizione culturale che dà grande valore alla testimonia­nza dei singoli rispetto all’analisi dall’esterno, per così dire, dei grandi processi storici. E non sempre il particolar­e vince sul generale.

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Il rapporto padre-figlio nella prima serie della fiction «Gomorra»

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