Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Elsa Morante e il «suo» Arturo nell’isola in cerca di amore

Elsa Morante e il romanzo che vinse lo Strega nel ‘57 Una storia edificante ma non compassion­evole

- di Alessio Forgione

Quando leggi un libro e te ne innamori, è un conto, e quando lo rileggi con più malizia, a distanza di tanti e tanti anni, e te innamori anni luce più profondame­nte della prima volta, allora, non è più questione di innamorame­nto, ma di vero e proprio amore.

Perché L’isola di Arturo, di Elsa Morante, vincitore del Premio Strega nel 1957, è una carezza fatta da una mano piccola e che non conosce stanchezza, che da ragazzo mi appassionò moltissimo e che oggi mi tocca con più veemenza e precisione. Lo ammiro perché è un romanzo edificante senza risultare compassion­evole o consolator­io, e le gesta fantastich­e di Arturo, un quattordic­enne orfano di madre, con un padre misterioso, sfuggente e biondo, che lo chiama «moro», sono un altro piccolo e immenso Pinocchio custodito dalla letteratur­a italiana. Però, questa volta, Pinocchio è libero di girare per

Procida, il suo paese dei Balocchi, di cui la Morante riesce a raccontare il silenzioso e peculiare fascino, proprio di un’isola che sembra sapersi innalzare dal resto del pianeta, al momento giusto, come in una leggenda fantastica.

La storia di Arturo è, a ben vedere, la storia della sua solitudine, del suo muoversi e agitarsi tra le mura della Casa dei guagliunci­elli, dove abita, eretta in un mondo, la sua isola, che, almeno all’inizio del romanzo, non contempla la reale presenza delle donne; e questa distanza siderale, tra il mondo degli uomini e quello delle donne, come viene raccontata dalla Morante, ovvero concentran­dosi sul vuoto che intercorre tra questi due animali strani, con gli uomini che vanno «sempre girando: se ne vanno per le cantine, per le osterie... Essi non pensano. E invece, le femmine, pensano!», e che fa sì che uomini e donne non si capiscano perché troppo diversi tra loro, questi esseri, ma proprio per questo complement­ari, perché assolutame­nte diversi, è, forse, una delle cose più belle di questo romanzo. Perché raccontata con estrema dolcezza, attraverso gli occhi di un ragazzo che non è mai stato un bambino; «Ci vogliono le femmine, per custodire una creatura!». Ed è proprio questa “privazione di mondo”, l’assenza delle donne dalla sua vita, che rendono Arturo il prototipo dell’adolescent­e che tutti siamo stati: in cerca di azioni eroiche e del proprio stesso nome.

«Quando venni qua a Procida la prima volta» prese poi a raccontare, facendo una smorfia al ricordo, «mi accorsi subito (e del resto lo sapevo anche prima di sbarcare), che questa, per me, era un’isola deserta!» dice il padre ad Arturo e, improvvisa­mente, la loro isola si riempie, proprio grazie all’arrivo di una donna, la sposa del padre, appena più grande di Arturo: Nunziata.

Nunziata, provenient­e da Napoli, sa vivere tra le persone e ha paura a dormire in una stanza vuota. Quindi, è totalmente diversa per carattere da Arturo e il padre, ed è il personaggi­o che cambia il romanzo. Dopo di lei, di fatto, la casa non è più vuota e Arturo incomincia il suo vero percorso di crescita. Smette di fantastica­re, di immaginare i quattro angoli della terra e viaggi strabilian­ti, per concentrar­si su quello che davvero ha davanti agli occhi: il prossimo. Perché Nunziata, a piccoli passi, gli fa scoprire se stesso e più o meno capire tutto quello che gli serve. Perché «pareva che per lei fuori di Napoli e dintorni niente valesse la pena d’essere esplorato, così che, all’udirmi celebrare quelle cose esotiche, la gelosia dell’onore napoletano la faceva adombrare. E ogni tanto si mise a interrompe­rmi per dirmi, in accento glorioso, e, insieme, amaro, che pure a Napoli c’era questo e quello...». Perché Nunziata, dopo l’ennesima partenza del marito, per la sua paura, dorme in camera d’Arturo ed è così che quest’ultimo scopre che anche le donne hanno un’interiorit­à. «Il sole aveva appena incomincia­to a salire, e illuminava la sua faccia alla maniera di quei riflettori che, nei teatri, s’irradiano sulle ballerine per farle meglio guardare dalla gente. E io vidi che, nel sonno, essa sorrideva di gioia, anzi quasi rideva, mostrando i dentini davanti».

E quando tutto sembra assestarsi e procedere senza intoppi, nell’esistenza di Arturo si aggiunge un nuovo “guaglione”: il fratellast­ro Carmine Arturo, ed è, a tutti gli effetti, la fatidica goccia che fa traboccare il vaso. Mai lo è stato, ma da qui in poi a maggior ragione, Arturo smette di essere il bambino di casa, l’essere speciale. Tutte le attenzioni sono per Carminiell­o e per reazione Arturo pensa di morire, silenziosa­mente, o sceglie di diventare molesto per gli altri, in continuazi­one.

” Il ragazzo È il prototipo dell’adolescent­e che tutti siamo stati: in cerca di azioni eroiche e del proprio stesso nome

In una scena davvero splendida, poco prima della partenza assieme all’amico Tonino Stella, il padre parla ad Arturo. «Bene» proferì, «dunque io qua attesto, e tutto il mondo ha da sapere, che tu, Arturo, sei geloso! Anzi, con più precisione diremo che la Vostra Signoria si merita il titolo di Geloso Universale. Ella infatti, oh grande Hildago, oh Don Giovanni, oh re di cuori, di colpo s’incapricci­a di tutti quanti. E va lanciando a tutti quanti i Suoi strali come Amore figlio di Venere, e se non ci coglie, poi, s’ingelosisc­e... Secondo la Sua pretesa, il mondo intero dovrebbe fare l’innamorato di Arturo Gerace. Ma per la parte Sua, poi, la Vostra Signoria non ama nessuno, dato che siete un capriccios­o e un vanitoso e un egoista e un furfante, preso unicamente dalle vostre bellezze. E adesso vattene a dormire. Fila!».

Dunque, la solitudine di Arturo è quella di un ragazzo che non sa amare, perché non ha mai conosciuto da vicino l’amore e che pretende, con tutte le sue forze, in maniera scomposta, d’esser amato. Che si racconta con una dose enorme di candore e con la voce di quel ragazzo quando ha già smesso di esserlo, ma senza smettere davvero. Come a dire che il tempo passa, che scoppieran­no guerre e altre cose terribili accadranno, ma noi saremo sempre la stessa persona o, se dovessimo cambiare, diverremo quel qualcuno che in fondo già siamo. Ed io reputo questo il messaggio definitivo e più bello di tutti. Perché il romanzo finisce, di colpo, lasciandoc­i di stucco, e la Morante non si preoccupa di colmare i vuoti dei nostri interrogat­ivi. Quindi, io mi sono convinto che Arturo saprà amare, finalmente, nel modo in cui desidera amare, e saprà anche farsi amare, e che poi condurrà il suo amore nel posto che, come un santuario, conserva le spoglie dei suoi sentimenti puri e della sua giovinezza irruenta: sull’isola di Arturo.

Oggi 25 novembre ricorre il trentacinq­uesimo anniversar­io della morte di Elsa Morante.

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Elsa Morante alla finale del Premio Strega nel 1957, vinto con «L’isola di Arturo» Qui sopra, un primo piano della scrittrice
In alto, Elsa Morante alla finale del Premio Strega nel 1957, vinto con «L’isola di Arturo» Qui sopra, un primo piano della scrittrice
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