Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il «cugino» di Harry Potter abita nel Maschio Angioino
Lo chiamarono Gigi Potter di Daniela Carelli è un inno a Napoli e alla napoletanità, e non perché nelle sue pagine la nostra città non appaia gravata da storture e nequizie (d’altronde va così in tutto il mondo), che anzi la vicenda ce ne propina una dose abbondante (criminalità sfacciata, droga sempre più diffusa, bullismo, razzismo, omofobia).
Ma perché Napoli vi è rappresentata come un luogo dove, malgrado tutto, la gioia di vivere prevale sempre sul dolore, la speranza sullo sconforto, la risata sul pianto, e un raggio di sole riesce a insinuarsi anche nel vicolo più angusto e oscuro.
Una rappresentazione da non liquidare sbrigativamente come folkloristica, se teniamo presenti le testimonianze dei viaggiatori che approdavano a Napoli ai tempi del Grand-Tour e si dichiaravano strabiliati dal fatto che la plebe, pur abitando in tuguri e vestendo di stracci, apparisse felice, anzi ubriaca di felicità: una felicità così straripante che a loro volta essi ne erano storditi e inebriati. Sicché non è azzardato ipotizzare che, accanto a tanti eclatanti difetti, noi napoletani possediamo davvero la capacità di avvertire e godere, andopo che in situazioni di disagio estremo, la miracolosità della vita. Ecco: è nel segno di questa salvifica dote di cui il cielo ci ha corredato che si dipana la vicenda dell’ultimo libro dell’artista e scrittrice napoletana. E non ce ne stupiamo, perché Daniela Carelli, partenopea doc residente a Milano, proprio a causa della lontananza avverte, come spesso accade, con più struggente pienezza l’unicità di Napoli.
Unicità subito percepita dal protagonista, il ragazzino napoletano Gigi che, essendo cresciuto a Milano, Napoli non l’ha mai vista, ma che, quando «all’intrasatta» ci viene catapultato, perché il padre, anni di esilio meneghino, vi ha finalmente trovato lavoro come custode del Maschio Angioino, senza crisi di spaesamento si lascia risucchiare e ammaliare dal contesto: contesto partenopeo a 360 gradi, perché la tribù parentale è affettuosissima, la preparazione delle bottiglie di «pommarola» è rito antico che scalda il cuore, il mare è azzurro e incantatore.
Ma, accanto a questa equilibristica sapienza nel trasmettere al lettore la quintessenza della napoletanità senza scadere in toni da opuscolo promozionale, l’autrice ha anche un altro merito: introduce una novità nel sempre più affollato scenario letterario della Napoli
odierna. Cioè: Gigi è ricchissimo di fantasia e particolarmente devoto a Harry Potter di cui si ritiene quasi un «alter ego». E allora cosa succede quando si insedia al Maschio Angioino? Ebbene: che i meccanismi dell’immaginario scattano, che il mondo arcano di Hogwarts di cui è costante frequentatore si scontra col viluppo delle suggestioni insite nelle viscere del castello, e che, voila, si risveglia il mistero! Situazione, che io sappia, narrativamente inedita. Perché, certo, da noi il mistero è sempre stato di casa (Napoli è la città del monaciello, delle cape ‘e muorto, della bella ‘mbriana), ma gli scrittori, convinti che, rifug
gendo la modernità, esso si fosse rintanato in irraggiungibili anfratti, non si son presi la briga di mostrarlo in azione nella città del 2000 (anche Malacqua, unica e grande eccezione alla refrattarietà all’irrazionale dell’inventiva nostrana, ha visto la luce in una Napoli non digitalizzata). E invece qui eccolo che riaffiora, incurante dei cellulari che squillano, ma fedele alla sua indefinibilità: perché balena, si dissolve, riappare, poi, stop, di nuovo è scomparso, ma continua a alitare, irretendo Gigi in un gioco a «Ti vedo e non ti vedo». E forse (sì, «forse», perché alle certezze è incompatibile) svolge un’azione benefica, aiutando a mortificare la camorra, sanare i contrasti, impedire l’alienazione.
In conclusione un libro per ogni età che ha tutte le prerogative per trasformarsi in un film.