Corriere del Mezzogiorno (Campania)

IL FIGLIO PERFETTO DI QUESTA CITTÀ

- Di Pietro Treccagnol­i

Napoli non crederà mai alla morte di Diego Armando Maradona. Perché gli dei non muoiono e tantomeno muore D10S. Potrete ripeterlo per l’eternità ma i napoletani non vi daranno mai ragione. Diego lo portano nel cuore e il cuore batterà sempre per lui.

Napoli con quel ragazzo riccioluto, nato nella periferia di Buenos Aires, nelle baracche dove combatte un popolo simile a quello dei bassi, ha scoperto che il mondo può essere azzurro come il nostro cielo.

I napoletani l’hanno visto agguantare il sacro fuoco dell’Olimpio calcistico e correre per tutta la Terra portando in alto il nome della città, come un vessillo di vittoria perenne, come lo stendardo dell’orgoglio ritrovato e che mai nessuno avrebbe potuto portar via dai vicoli senza sole, finalmente risplenden­ti di luce, dai muri dove la sua immagine è dipinta e adorata da decenni.

Napoli era la città perfetta per Maradona e Maradona è stato, è e sarà il figlio perfetto per Napoli. Era lo scugnizzo magico, la mano di Dio e il piede di san Gennaro che faceva miracoli non tre volte all’anno, ma ogni domenica nei campi di calcio. Abbiamo amato subito quel nano incontenib­ile, fin dal primo giorno di quel luglio del 1984, quando apparve al San Paolo come l’epifania della bellezza pedatoria, come il puer divino che avrebbe meritato solo Te Diegum, solo Inni alla Gioia e solo Tanghi della Gelosia (da parte chi avrà potuto vincere tutti gli scudetti che vuole, ma non l’avrà mai visto indossare la sua maglietta), l’abbiamo osannato quel 10 maggio del 1987 quando il primo scudetto fece impazzire milioni di tifosi, l’abbiamo idolatrato per il bis di tre anni dopo e per la Coppa Uefa conquistat­a nell’intervallo.

È stato un legame indissolub­ile fino ad allora e oltre, perfino nell’addio che fu una fuga, inseguito com’era dai suoi demoni personali, dagli errori e dagli orrori di una vita al di là del bene e del male, come è solo concessa alle divinità, stordito dalla cocaina che non gli serviva per vincere, ma per liberarsi dal mito, per scendere tra gli uomini e viverne le debolezze.

Napoli l’ha venerato, l’ha portato sugli altari e non l’ha mai fatto scendere. Ha saputo persino fischiarlo quando ha trafitto l’azzurro nazionale con un rigore che spense le illusioni italiane del Mondiale del ’90. Ha saputo finanche affibbiarg­li terribili voti in pagella, come fece l’indimentic­abile Giuseppe Pacileo sul Mattino, quando come un Franti irridente e infiacchit­o meritava di essere messo in riga. Fischi e sanzioni, ma sempre per amore.

A Maradona non è mai costata fatica farsi amare dai napoletani e amare i napoletani. Eravamo fatti l’uno per gli altri. Cercavamo il Masaniello vincente che però non tradisse lo stereotipo di genio e sregolatez­za e che fosse comunque l’uomo del riscatto. L’abbiamo avuto e ce lo teniamo stretto e caro. Nessuno ce lo potrà mai togliere.

A Napoli, Maradona si è perso nel cuore nero della città lazzara, nei percorsi labirintic­i che portano a contaminar­si con la criminalit­à, a farsi amare, a sedurre e abbandonar­e persino i figli, da vero Saturno irriconosc­ente. Come un dio sudamerica­no, figlio di chissà che poeta, come ferito a morte ma immortale, come un urlo del vento mentre insegue il pallone e le curve e le tribune trattengon­o il fiato e Fuorigrott­a ammutolisc­e per poi esplodere come un Capodanno di cori, porompompe­ri e sberleffi: ‘o mamma mamma mamma, sai perché mi batte il corazon? Tutti innamorati eravamo. Con lui Napoli era Napoli, non solo il Napoli.

Maradona è stato, per chi l’ha sentito figlio e fratello, il superuomo di Nietzsche, al quale tutto è permesso e non ha bisogno del perdono. La sua parabola all’ombra del Vesuvio è diventata l’ultimo atto di un’era. Ha chiuso con un prodigioso fuoco d’artificio decenni di depression­e psicologic­a culminata con gli anni del postterrem­oto, prima della tempesta di Tangentopo­li. Un autentico finale di partita dove Napoli dava scacco matto a un mondo del calcio che l’aveva sempre trattata da pezzente. Nella scacchiera bianca e nera ora c’era posto per un solo re che vestiva d’azzurro. Palla al centro.

Poi quando Diego è andato via, Napoli ha indossato i panni di Penelope e ne ha atteso il ritorno, anche solo per un saluto, uno sguardo, un sorriso. Napoli era la sua Itaca, perché dopo l’Iliade dove era Achille sopravviss­uto a tutti i dardi della vita, non poteva che esserci l’Odissea. Napoli l’ha aspettato come una moglie assediata e impenetrab­ile al tradimento perché il cuore di Diego pulsava all’unisono con quello della città. E il suo cuore non si è fermato, continuerà a battere finché ogni napoletano che ha visto l’uomo farsi dio e il dio diventare uomo ne canterà le gesta come un’epica infinita.

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