Corriere del Mezzogiorno (Campania)

SOLTANTO LUI CI HA RESI FELICI

- Di Alessio Forgione

Nel 1992 ho cominciato la seconda elementare nella scuola pubblica di Corbetta, provincia di Milano. I ragazzini si vestivano meglio di me e non parlavano mai in dialetto e dopo qualche tempo, dopo avermi visto giocare a pallone, pensavo io, presero a scrivermi «Maradona» sopra lo zaino, con il gessetto.

Non lasciai stare, perché non pensai di dovermi difendere. Non ci fu proprio bisogno di far nulla, perché ne ero felice e orgoglioso.

Poi, successe che un giorno alla parola «Maradona» aggiunsero quella di «drogato» ed io mi sentii molto più che offeso. Mi sentii di fottere, tecnicamen­te parlando, perché non immaginavo si potesse dire qualcosa di male su Diego Armando Maradona e, in definitiva, fu come se offendesse­ro me personalme­nte, ma anche mia mamma e mio padre, tutta la mia famiglia, anche quella lontana, e tutte le persone che non conoscevo bene, ma che esistevano, a Napoli, e continuava­no a esistere lì.

Per tutta risposta, picchiavo questi bambini che mi capitavano a tiro, sempre, e più che la mia classe vidi i corridoi della scuola. Da tale assurda situazione, da una sicura bocciatura in seconda elementare, mi salvò mia mamma che decise che era meglio tornare e forse anche vivere sotto i ponti, ma che l’importante fosse stare a Napoli.

Così facemmo e da quel giorno, che ricordo perfettame­nte, la nostra macchina e l’autostrada che le scorreva sotto e non finiva mai, non ho più avuto bisogno di difendere Maradona, né in pubblico né in privato. Al massimo, di argomentar­lo.

Diego Armando Maradona, sempliceme­nte, per me che non sono nient’altro che un napoletano, è una delle cose più belle di questa vita.

Vuol dire vincere perché te lo meriti, restando al proprio posto, stringendo i denti e aspettando il tuo attimo, senza dover ringraziar­e nessuno, tentando il tutto per tutto e o la va o la spacca. Diego Armando Maradona è un eroe e quella persona di cui, quando facevamo filone, se c’era una casa dove chiudersi, se faceva freddo o pioveva, riguardava­mo tutte le cassette in assoluto silenzio, come se la casa fosse una chiesa, e anche perché in casa di tutti c’erano le cassette di Maradona.

Non l’ho mai visto giocare dal vivo e questo è uno dei miei più grandi rimpianti. Ma sono cresciuto nel suo culto, a cavallo tra sacro e profano, come tutto quello che accade qui a Napoli. Ed io ci ho creduto alla sua natura ultraterre­na, divina, alla sua figura di Dio sceso su questo pianeta per avvicinarc­i di più al cielo, esultando e facendoci gioire assieme. E quando mi trovo costretto ad argomentar­e del perché i napoletani, ai mondiali, tifino per l’Argentina e non per l’Italia, la mia risposta è semplice e forse anche banale: perché Maradona ha fatto quello che per noi l’Italia non ha mai fatto: ci ha resi felici. Perché è stato il perfetto idolo di una squadra di calcio il cui inno è una canzone sull’amore lontano, e perché Maradona ci ha anche insegnato ad amarci di più in quanto napoletani. Perché la nostra religione laica non si basa sulla morte di qualcuno o sul dolore, ma sulla bellezza e la gioia. Diego Armando Maradona è stato un missionari­o e a Napoli ha portato la sua fede senza spargiment­i di sangue, e l’ha trasmessa a tutti quanti noi danzando il suo calcio e la sua esistenza.

Diego Armando Maradona, a Napoli, è una di quelle cose che non conosce critiche o offese.

Ci conformiam­o tutti alla assoluta gratitudin­e e devozione che proviamo per un artista geniale, per un uomo che ha toccato così tante volte il fondo che anche lui ha smesso di contarle. E va bene così, non fa nulla, perché quel che conta,

nella vita, non è il dolore, ma la gioia e la bellezza. Non ha reso il calcio più bello, o non solo: ha reso il mondo, partendo da Napoli, un posto migliore. E adesso temo, temo moltissimo. Temo che la notizia sia vera. Temo di essermi illuso e non posso essermi illuso perché restano le prove del passaggio di Maradona tra noi persone normali e intatto il suo culto, e non può morire così, mi dico, a sessant’anni, in un pomeriggio come tanti e che è restato come tanti. La terra non si è spaccata in due e il cielo non è diventato nero e il mare non si è aperto e noi tutti siamo sopravviss­uti, inutilment­e. Eppure Diego Armando Maradona è morto, ma forse, penso, è morto solo l’uomo e le sue spoglie terrene.

Quindi, farò quello che faranno tutte le persone come me e tutti i napoletani di questo mondo.

Aspetterem­o tre giorni, nel caso Diego Armando Maradona decida di risorgere. Se così non fosse, se dovesse continuare a essere morto, allora non sarà morto: avrà sempliceme­nte deciso che era arrivato il momento di pronunciar­e il suo «arrivederc­i», la parola più bella di tutte, quella che serve dirsi per pensarci reciprocam­ente mentre siamo lontani, e per volerci ancora più bene quando ci rincontrer­emo. E perché l’unica certezza che ho sempre avuto e che sempre mi rimarrà è che Diego Armano Maradona non può morire.

Per qualsiasi evenienza: grazie Diego, con tutto il cuore, per sempre.

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