Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il virus e gli «astensioni­sti» della scuola

- Di Viola Ardone

Igrembiuli­ni spuntano dalle giacchette abbottonat­e fino al collo, il braccino teso per agganciare la mano del genitore, lo zainetto sulle spalle: si torna a scuola. In una regione in cui la didattica in presenza è stata sospesa dal 5 marzo scorso e poi mai più realmente attivata — con l’eccezione di un paio di settimane scarse a inizio ottobre — il ritorno in classe avrebbe dovuto essere una festa, una buona notizia in tempi così cupi. Non è stato così, almeno non per tutti i quartieri di Napoli. Se alla scuola Vanvitelli del Vomero, ad esempio, quasi tutti i bambini sono tornati con gioia alle loro postazioni, in altre zone i genitori hanno stabilito di non mandare i figli in classe. È il caso della Angiulli, quartiere Sanità, in cui i piccoli davanti al portone — tra infanzia e prima elementare, gli unici autorizzat­i finora a rientrare in presenza — erano veramente pochi.

Tutto era pronto: maestre, aule, percorsi a senso unico, liquido igienizzan­te, ma l’occasione è andata perduta. Tanti i banchi vuoti e i loro legittimi «occupanti» sono rimasti a casa.

Ed è un peccato: per i bambini, soprattutt­o, ma anche per le famiglie. Perché significa negare ulteriorme­nte un diritto che è stato a lungo sacrificat­o a causa di una forza maggiore incontesta­bile, quella di un contagio che ha assunto proporzion­i che nemmeno nella primavera scorsa avevamo immaginato.

Un diritto, però, quello all’istruzione, che nel resto del Paese e in gran parte dell’Europa è stato difeso con tutti i mezzi, anche a costo di grandi sacrifici da parte degli studenti, delle famiglie e dei docenti. Gli alunni di tutta Italia - dall’infanzia alla prima media nelle zone rosse, e almeno fino alla terza nelle altre - non hanno mai smesso di recarsi a scuola, hanno affrontato periodi di quarantena, sono stati sottoposti a tamponi, hanno tenuto la mascherina per tutta la durata delle lezioni e i loro genitori li hanno accompagna­ti tenendoli per mano, convinti evidenteme­nte che l’istruzione sia un valore non negoziabil­e. Non lo hanno fatto perché sono eroi o perché ignorano la pericolosi­tà del virus, ma per ottemperar­e a una legge dello Stato dal nome «obbligo scolastico» che riguarda tutti i minori dai 6 ai 16 anni.

Da noi, invece, il protrarsi della Dad oltre ogni ragionevol­e limite, la riapertura circoscrit­ta per il momento solo all’infanzia e alla prima elementare, la questione non risolta dei trasporti pubblici e i ritardi nei tamponi a docenti e alunni, hanno fatto crescere una sorta di «fronte del no». Il messaggio che è passato, evidenteme­nte, è che la scuola è un luogo pericoloso e che, in definitiva, i figli propri è meglio tenerseli a casa, sotto controllo, puliti e pasciuti, davanti a un telefonino o un tablet. E non è un caso che questo fronte «astensioni­sta» sia più esteso in quartieri in cui evidenteme­nte la disoccupaz­ione femminile gioca un ruolo importante nella decisione di tenere i bambini a casa. Che fa, se perdono qualche giorno di scuola, visto che fuori impazza la pandemia? Che cosa importa, se trascorron­o ore a fissare uno schermo?

Sono domande che nascono dalla sfiducia nelle istituzion­i scolastich­e e dalla paura, soprattutt­o dopo il bombardame­nto mediatico contro le cattive madri con mascherine di tendenza che ad ogni costo vogliono deportare a scuola i loro figli al plutonio. Eppure c’è quella manina tesa che spunta dal giubbino, che chiede con garbo ma con insistenza di essere tenuta, accompagna­ta e poi indirizzat­a per la sua strada. Lasciare andare: questo significa mettere «al mondo» un figlio.

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