Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Fofi e Napoli, la città non omologata
Sono anni felici quelli — dal ‘72 al ‘77 — che Goffredo Fofi trascorre a Napoli, quando partecipa alla fondazione della Mensa dei bambini proletari. «Una delle poche esperienze davvero interclassiste che mi siano capitate: nel nostro gruppo c’erano piccolo borghesi del Vomero, aristocratici e sottoproletari» racconta il critico davanti alla telecamera di Felice Pesoli, autore del bel documentario Suole di vento. Storie di Goffredo Fofi, presentato ieri al Torino Film Festival.
Un docufilm (80 minuti circa) in cui è lo stesso critico e intellettuale (termine che lui non ama affatto) a rievocare la sua vita, dall’infanzia a Gubbio alla fuga nella Sicilia di Danilo Dolci e poi via via a Roma, a Milano, a Parigi, a Torino e a Napoli, tutti luoghi di formazione e di militanza. Nella Napoli degli anni Settanta, in particolare, Fofi trova una città che pasolinianamente è poco omologata. «Il movimento sessantottino arrivava lì con più lentezza che altrove, c’era ancora una cultura autonoma del popolo, basata su una linea orale, di teatro e musica, c’era ancora la sceneggiata. Visitai subito tutti i teatri». A Fofi capitò in quegli anni di condurre Elsa Morante a spasso, felice, tra i vicoli del centro storico. «Di lei avevo letto “Il mondo salvato dai ragazzini” ed ero stato folgorato». Alla Mensa Fofi rispolvera le sue competenze pedagogiche di maestro ed educatore: «Mi piaceva insegnare ai bambini giochi collettivi, ne ospitavamo anche duecento alla volta». Quelle stanze di salita Pontecorvo erano frequentate anche da Fabrizia Ramondino, altra grande amica di Goffredo Fofi, scrittrice a cui Napoli proprio ieri ha dedicato le Rampe che si trovano a poca distanza dalla sede della Mensa. E Ramondino, come Fofi, incarna l’ideale di un intellettuale impegnato che non rinuncia a contrapporre all’accettazione del mondo così com’è la volontà di cambiarlo, di incidere sulla realtà.
Nel racconto di Fofi c’è ironia, talvolta un po’ di tenerezza verso quegli anni di grandi slanci rivoluzionari, poi venuti meno. E divertimento. Per esempio quando ricorda le continue richieste che gli arrivavano di articoli su Totò, dopo che aveva firmato il primo libro sull’attore. «Una volta ero al telefono e mi chiedevano ancora di scrivere di lui. Io rifiutai, ma in quell’istante a casa mia cadde con gran rumore il quadro che raffigurava proprio Totò e così mi precipitai ad accettare».
La galleria di personaggi è impressionante, da Bobbio a Paolo Gobetti, da Buñuel a Bellocchio e Cherchi, da Julian Beck a Fellini, in pratica tutta la cultura non solo italiana ma internazionale di diversi decenni. Notevole il ruolo che hanno svolto le numerose riviste fondate da Fofi, dove si sono formati tantissimi scrittori. Ma questa è storia nota. Quel che più salta all’occhio è la forza ancora indomita del critico, che non ammette atteggiamenti «da reduce». Con Rimbaud, Fofi è convinto che bisogna essere presenti nel proprio tempo. Nonostante più volte abbia apertamente deprecato questo nostro tempo così depauperato sul piano politico, sociale, culturale. Essere critici del presente è una grande fatica, rimarca Fofi, ma tocca farla e continuare a rompere le scatole per farsi sentire. Arte in cui eccelle. E per questo ed altro resta uno degli ultimi grandi maestri, capace di fare scuola e di fare rete, ovvero di mettere in luce con generosità le energie nuove che incontra sulla sua strada.