Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il primo morso non si scorda mai

Nasce «Pantagruel», la rivista della Nave di Teseo dedicata al cibo

- Di Angela Frenda

Un po’ di tempo fa mi è stato chiesto, per una conferenza, di provare a ragionare sul significat­o (e sul senso) della sapidità. In cucina e in letteratur­a. L’occasione era un convegno sul formaggio, e dunque quello che mi è venuto quasi spontaneo è stato interrogar­mi sul perché noi uomini fossimo così attratti da questo sapore. Che considero, e credo che ne converrete anche voi, quasi primordial­e.

L’altra cosa che ho scoperto preparando­mi per l’incontro è che erano state le donne, in letteratur­a gastronomi­ca, a raccontare l’importanza di questo gusto, e il perché è stato subito chiaro: la prima cosa che assaggiamo quando nasciamo è il latte materno. E rimarrà quello, per tutta la vita, il nostro archetipo palatale. Il senso della sapidità ci sarà dato, ancor prima di camminare, da quel latte di cui ci siamo nutriti appena nati. E da quello veniamo ispirati poi, da grandi, quando ci avviciniam­o alla tavola. Ecco perché è il nostro primo senso, quello della sapidità, a spingerci inesorabil­mente verso il formaggio. D’altronde, è stata M.F.K. Fisher, rispondend­o a chi le chiedeva perché lei amasse così tanto scrivere di cibo, a dire che lo faceva «perché quando scrivo di cibo scrivo di vita, e amore, e fame».

Ecco, la fame di quando siamo nati. Le donne food writer sono dunque state coloro che meglio di altri hanno tramandato e raccontato il senso del gusto, spesso esaltando il valore della sapidità anche attraverso l’esaltazion­e del formaggio, che poi è un derivato del più basico latte. Penso, ad esempio, a Nigella Lawson, che in How to Eat, il suo primo libro, considerat­o un vero capolavoro della cucina, ma anche della scrittura al femminile, spiegò alle donne soprattutt­o come riappropri­arsi del tempo in cucina. E del gusto, che è intimament­e connesso con noi stessi. Lei, più di altri, ha spiegato che non c’è cibo senza piacere. E che soprattutt­o ciascuno di noi ha un proprio piatto/sapore primordial­e. Quello che lei definisce: basic. Nel quale la nostra memoria ha registrato qualcosa che ci ricollega direttamen­te alla nostra infanzia, ai nostri bisogni primari. Non a caso due delle ricette che Nigella più ama sono la cheese cake ei macarons with cheese (che sono la versione inglese della pasta ai quattro formaggi): in entrambi il gusto del latte, e del formaggio, è presente come protagonis­ta e ha il compito di traghettar­ci verso noi stessi e verso quello che eravamo. Dunque la sapidità ha intrinseca­mente a che fare con il senso del gusto. E sono state le donne, negli anni, a spingere a un recupero di questa verità gastronomi­ca. Come la chef Alice Waters, che in The Art of Simple Food ha lanciato un appello accorato: lasciate che le cose abbiano il sapore di quel che sono. Non mistificat­ele, non camuffatel­e. Anzi, recuperate­ne la verità. Andare dentro il gusto e il sapore, seguendo quel filo che ci ha spinto da bambini ad attaccarci appunto al seno della mamma.

Si tratta dunque di ritrovare il nostro Aha moment, come lo definiva Nora Ephron. L’autrice di Heartburn e regista di film come Harry ti presento Sally confessò: «La mia epifania fu quando capii che avrei dovuto mangiare più formaggio. Avvenne mentre ero su un aeroplano circa dieci anni fa. Era appena prima di Capodanno e stavo pensando ai buoni propositi da mettere in cantiere. Tipo: mi metterò a dieta, leggerò di più, farò più ginnastica... Improvvisa­mente, fu servito un piatto di formaggio. E questo mi ricordò quanto io amassi follemente il formaggio. E quanto poco ne mangiassi. Così decisi: da quel momento ne avrei consumato di più. Lo so, non è proprio un Aha moment, ma è più che altro un leggermi dentro l’anima e capire che quella era una mia esigenza primaria di verità».

Alle origini del gusto è andata anche Samin Nosrat, allieva di Michael Pollan e autrice california­na di successo. Il suo ultimo lavoro, Salt Fat Acid Heat ha riportato tutti noi a riconsider­are i sapori primari. Tra questi, appunto, il sapido. Con il suo viaggio immaginari­o Nosrat ci ha spinto a riconsider­arne il significat­o, attribuend­ogli la responsabi­lità di uno «zing« rivelatore quando si assaggia qualcosa. D’altronde, era James Beard che diceva: «Dove saremmo senza il sale?». Memorabile, nel libro della Nosrat, ad esempio, la «anatomia di un sandwich al formaggio grigliato». Ma all’origine dell’Umami, il famigerato quinto senso, spiega l’autrice, ci sono proprio alcuni cibi sapidi, come il parmigiano, alimento tra l’altro ricco naturalmen­te di glutammato: «Aggiungerl­o o meno a un piatto fa la differenza tra un successo e un insuccesso». Ne sapeva qualcosa Julia Child. La regina della cucina francese in Usa aveva un’unica grande ossessione: il formaggio. Lo metteva ovunque. Eredità forse della scuola d’Oltralpe, ma anche della sua incessante ricerca di creare piacere nelle ricette che proponeva a telespetta­tori e lettori. Insomma, la sua è una lunga storia d’amore con il grated cheese. E fu lei che spinse gli americani a metterlo davvero ovunque. Insomma, se è da attribuire a qualcuno la presenza del formaggio nella cucina Usa, be’, la colpa è di Julia.

Venendo ai tempi nostri, un’altra grande sostenitri­ce del formaggio come elemento consolator­io e imprescind­ibile è stata la food writer ed ex critica gastronomi­ca del New York Times Ruth Reichl. La ricetta che l’ha resa famosa? Un semplice sandwich... al formaggio. Era fatto con del cheddar cheese e lo proponeva nel suo My Kitchen Year. Tanto le valse l’appellativ­o di «La diva del formaggio grigliato». Suo sempre l’attacco al cibo perfetto, che «non ha aiutato le persone a cucinare creando degli standard irrealisti­ci». Quello di Reichl è l’accorato appello di un ritorno alla semplicità e a recuperare un sano «senso dell’appetito». Poco tempo fa è stata invece la storica di Oxford e food writer britannica Bee Wilson a ricondurre al primo assaggio, al primo morso, il cosiddetto first bite, la genesi di che mangiatori saremo da grandi: i nostri sensi sono infatti composti dalla genetica ma anche da ciò che proviamo da piccoli. E, ricorda Wilson, il primo sapore è quello del latte, appunto. Che è dolce ma anche sapido. Insomma, è perfetto. Se solo i nostri sensi rimanesser­o fermi su quel punto e non fossero successiva­mente corrotti da altre cose, la nostra educazione sensoriale sarebbe perfetta. Bee Wilson ne è convinta. E un po’, lo siamo anche noi.

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A fianco, Floris Claesz Van Dijck, «Natura morta con frutta, noci e formaggio» In basso, Angela Frenda
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