Corriere del Mezzogiorno (Campania)

IL GENIO, LA LEGGE E IL RISCATTO

- Di Giovanni Verde

Ho difeso Maradona per la vicenda familiare (perdendo), contro il Napoli (vincendo) e dinanzi al giudice sportivo (limitando i danni: ebbe la sospension­e per sei mesi che era il minimo possibile). Mentirei se dicessi di avere stabilito con lui un rapporto di amicizia. Appartenev­amo a mondi troppo diversi. Ma ci fu simpatia, tanta, e reciproca stima.

Per me, ammalato di calcio e del Napoli, egli non era un giocatore, era il calcio. Proprio mercoledì, non sapendo della sua morte, mio genero mi aveva chiesto se lo ritenessi superiore a Pelè. Gli ho detto che Maradona avrebbe indicato anche Di Stefano, che per lui rappresent­ava il giocatore completo da prendere come esempio (lo potetti conoscere, viaggiando con lui e con il professor Dal Monte, nell’aereo che ci portò in Argentina per il matrimonio). In quell’occasione il professor Dal Monte mi disse che aveva sottoposto Maradona a test, che avevano dato per risultato una capacità di reazione e una prontezza di riflessi quasi feline, quali, nel passato, era stata riscontrat­a nei «kamikaze» giapponesi. Oltre la tecnica straordina­ria, l’agilità e la forza fisica, è stata, credo, questa dote istintiva ciò che lo ha reso diverso dagli altri e grande. Mi diceva: «Non passo mai la palla dove c’è il compagno, ma dove deve stare (a Gattuso fischieran­no le orecchie) e la passo velocement­e (qui le orecchie fischieran­no a Fabian Ruiz)». Mi ripeteva che in campo, se vedeva i compagni in difficoltà, li esortava: «Passatemi la palla che ci penso io». Ma lo faceva senza alcuna supponenza, con affetto. Credo, infatti, che i suoi compagni gli abbiano sempre voluto bene perché fu sempre per loro un amico e mai fece pesare il suo genio calcistico. Amò Napoli e i napoletani e poiché il calcio

era la sua gioia, pensava di darci gioia; ne era davvero convinto. Per lui il calcio era un’eterna rivincita (un bisogno che si portava dentro) e Napoli fu l’habitat ideale per giocare la partita della sua vita.

Più volte, per una sua prodezza o per una vittoria del Napoli, mi ripeteva che era felice per «la gente», che era la sua gente. Era incurante dei suoi affari, che affidava ad altri. Venne a Napoli senza un soldo. Il suo procurator­e, che era stato l’amico di infanzia, con cattivi investimen­ti e altro non gli aveva fatto trovare nulla nelle casse.

Eppure non l’ho mai sentito pronunciar­e una sola parola contro di lui. Così come non ne ho sentite contro gli avversari che lo avevano maltrattat­o (in Spagna gli avevano spezzato una gamba) o che continuava­no a maltrattar­lo. Non sapeva serbare rancore.

Sul finire della sua avventura partenopea mi confessò che, anche se a malincuore, pensava che fosse il momento di andare via perché aveva

dato tutto ciò che era stato nelle sue possibilit­à (Tapie e il Marsiglia lo volevano). Aveva, credo, il presagio di ciò che sarebbe successo. Mi disse anche che a Napoli c’era chi poteva sostituirl­o. Era una giovane che stimava molto: Zola o, come lui lo chiamava affettuosa­mente, Zolino. Mi chiese di parlarne a Ferlaino. Lo feci, senza successo.

Iddio lo aveva dotato di un immenso talento. Lo sfruttò soltanto in minima parte. Se lo avesse fatto oggi non staremmo a discutere di chi sia stato il giocatore più grande di sempre. Se in ognuno di noi c’è qualcosa di Dioniso e qualcosa di Apollo (come diceva Nietzsche), in Maradona prevalse l’aspetto dionisiaco, che lo ha portato ad essere eccessivo e che lo ha probabilme­nte condotto ad una morte prematura.

Ma l’eccesso fu la cifra del suo essere. Se tornasse a nascere non potrebbe e non vorrebbe essere diverso. E noi non lo vorremmo diverso.

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