Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Leggenda

- Di Angelo Petrella SEGUE DALLA PRIMA

Mia nonna era riuscita a strappargl­i un’intervista — benché giornalist­a gastronomi­ca — e una foto autografat­a; mio padre, da giovane medico, lo aveva visitato un giorno in ambulatori­o; mia madre era riuscita a strappargl­i un sorriso all’uscita dallo stadio San Paolo dopo un infuocatis­simo scontro con il Milan... E io aspettavo il momento giusto, continuand­o a tappezzare di suoi adesivi la mia camera da letto. Abitava a poche centinaia di metri da casa. Napoli non era più sulle prime pagine per notizie di camorra, bradisismo, terremoto o disoccupaz­ione: ma per lui, che incarnava una doppia idea. Da un lato, quella che anche il più diseredato di una città ai confini del sud del mondo può farcela,

grazie al suo talento; dall’altra, quella di sollevare una città dimenticat­a dal resto del paese verso un sogno insperato.

Un calcio di altri tempi, ma anche un uomo di altri tempi: quale giocatore strapagato della massima serie odierna oserebbe rischiare i propri preziosi legamenti per sfidare su un campetto di terra e sassi una squadra locale pur di recuperare i soldi necessari alle cure del figlio di un tifoso, gravemente malato? «Che si fottessero i Lloyd di Londra. Questa partita si deve giocare per quel bambino». Questo era Diego. Un calciatore capace di inimicarsi dirigenti e presidenti pur di tutelare compagni indifesi o privi di protezioni politiche. Di andare contro la Fifa stessa, in nome della verità. Di tatuarsi il volto di Fidel Castro sul polpaccio quando l’America inaspriva l’embargo e il mondo del politicame­nte corretto inseguiva la moderazion­e a tutti i costi e ricacciava nell’armadio i fantasmi delle lotte socialiste. Amico incondizio­nato di Chavez, contrario alle mezze misure e alle ipocrisie: capace di eccessi, come solo gli uomini

leggendari sapevano fare. Perché era una rockstar, uno di quei geni che nascono una volta al secolo, un Rimbaud, un Modigliani. Alla sua conferenza di presentazi­one al Napoli nel 1984 dichiarò: «Voglio diventare l’idoli dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono come ero io a Buenos Aires».

Alla fine, dopo scudetti e racconti e interviste e trasferte, riuscii a intraveder­lo nella mia scuola: era venuto a prendere il nipote, con la sua auto. I miei compagni lo circondaro­no, lo assalirono, con i fogli dei quaderni e le penne pronte per gli autografi: lo adocchiai dalla vetrata e mi precipitai giù, il cuore mi batteva forte. Riuscii solo a cogliere il guizzo della sua auto che rombava fuori dal parcheggio. «Tranquillo, ha detto che tornerà ancora a prendere il nipote qui a scuola», mi dicevano i compagni per consolarmi. Tre mesi dopo era già andato via dalla città, portandosi via la nostra infanzia. E ora che è andato via davvero, per l’ultima volta, si è portato via un pezzo di storia. Però si è consegnato alla leggenda: e ha portato, nella leggenda, anche Napoli.

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