Corriere del Mezzogiorno (Campania)
«Scugnizzo» dei nostri sogni
Noi che rubavamo le canzoni di Madonna e di Sandy Marton dalle radio registrandole su cassette che facevamo suonare in feste casalinghe, con la luce stroboscopica, i faretti colorati, le palle da discoteca a specchi, mimetizzati su carte da parati a strisce scegliendo le nostre future spose, madri dei nostri figli, guardandole da dietro occhiali spessi e provando a stupirle con qualche mossa da break-dance. Noi che soffrivamo l’idea di essere ultimi ma che in fondo al nostro cuore sapevamo che quello era il nostro posto. Noi, che ogni domenica speravamo più nella vittoria del Napoli che di fare tredici al totocalcio. Noi, Diego, ti diciamo grazie.
Tu hai dribblato il tuo e il nostro destino, hai superato barriere impossibili da valicare. Tu ci hai insegnato che se quel gol lo sogni, che se hai il coraggio di immaginare quella traiettoria che si fa beffe delle leggi della fisica, allora la palla in
rete ci finisce, ci finisce e come! Ricordo che quando segnavi non urlavamo soltanto «Gooooool!». Prima esclamavamo «Uah!». Per chi non è napoletano, questa semplice esclamazione sta per la contrazione di «Oh! Anima mia!», «Oh! Anima bella!», «Oh! Anima della misera!», “Oh! Anima di Dio!». Le tue azioni, le tue imprese, ti riuscivano perché in campo potevi essere l’uomo che forse sognavi di essere nella vita.
Molti in queste ore si affrettano a distinguere il Maradona calciatore dal Maradona uomo. Io sono convinto invece che solo in campo sei riuscito ad essere un uomo, mentre la vita l’hai vissuta da giocatore. La storia ci ha messo tante volte di fronte a questa imbarazzante verità. Non è una legge, è vero, ma spesso i destinati a fare la storia hanno vissuto i loro pomeriggi, le loro lunghe notti, in stanze di lusso che puzzavano di rabbia, abitate dal fantasma del ricordo della povertà, della violenza subita, della prevaricazione. Non so se ti sto assolvendo, non credo. Almeno non vorrei farlo e non lo farò. Non posso però non dirti grazie. Io ero tra quei ragazzini che nelle piazze napoletane degli anni Ottanta urlavano la loro gioia, la loro disperazione, il loro bisogno di sentirsi normali. L’urgenza di salvarsi.
Oggi, in questa prima alba di un mondo che non ha più Diego Armando Maradona, io ti faccio una promessa. Il ricordo di te, delle tue imprese, del significato delle tue gesta, continuerà ad ispirarmi sui campi della vita. Ti prometto che non impedirò mai a me stesso di sognare traiettorie impossibili per segnare i miei gol, facendo impallidire santi e prepotenti. Spero anche, con tutto il mio cuore, che le tue imprese possano tornare ad ispirare i ragazzini della mia città di oggi, così diversi da noi. Più poveri di noi, perché hanno tutto, ma non hanno Maradona nel cuore. Perché tra l’essere delinquenti e l’essere scugnizzi c’è una differenza enorme. Il titolo di scugnizzo è un titolo nobiliare. Manchi Diego. Manchi a me, alla mia città, ai sogni del mio popolo. Il modo migliore però per salutarti, è quello di non dimenticare mai la promessa che ti sto facendo. Forza Napoli. Forza Diego.