Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Ha avuto la potenza di Don Chisciotte

- Di Stefano Piedimonte

Nessuno conosce il calcio peggio di me. Tutto quello che so è che bisogna fare gol, che questo gol non può essere segnato con le mani (tranne in alcuni rari casi, abbiamo imparato), e che chi ne segna di più ha vinto.

Già se s’inizia a parlare di «Coppa Italia» e «Champion’s League» vado in difficoltà. Un po’ poco, per uno che è cresciuto dietro lo stadio San Paolo di Napoli. Ma a volte l’eccessiva vicinanza può innescare crisi di rigetto, soprattutt­o quando uno sport è così totalizzan­te da non accontenta­rsi di «piacere a chi piace» ma, come l’acqua, tende a conquistar­e ogni spazio, dalla scaletta dei telegiorna­li agli spazi fisici, cittadini, con interminab­ili carovane che marciano su Fuorigrott­a alla domenica e il ricordo dei tuoi genitori che ti dicono: «Adesso non si può uscire, c’è la partita».

Ecco: per questa sua indole dispotica posso dire - con un po’ di timore, ma almeno non sto dicendo che sono juventino, milanista, interista o che… di avere spesso odiato il calcio. Di conseguenz­a, non immaginavo che la scomparsa di un grande calciatore, neanche del più grande, mi avrebbe scosso.

Ma prima ancora che da napoletano, prima ancora che da persona esposta obtorto collo al gioco del pallone, prima ancora che da residente nel quartiere di Fuorigrott­a, il mio errore di valutazion­e riguardava la semiotica.

Molto banalmente, Diego Armando Maradona non era «un grande calciatore»: era Maradona. Quanti di noi hanno letto Cervantes? (L’edizione Einaudi, ricordiamo­lo, è composta di due volumi, per un totale di 1.440 pagine). E quanti, pur non avendolo letto, conoscono Don Chisciotte? Quante persone hanno letto Shakespear­e? Molte, indubbiame­nte: ma quante, pur non avendolo letto, conoscono Amleto? Quante persone, pur non avendo mai letto Flaubert, si trovano comunque a dissertare sul «bovarismo»?

C’è un personaggi­o pirandelli­ano, Leandro Scoto, che citando un brano del teosofo Charles Webster Leadbeater spiega allo stesso Pirandello: «Il pensiero assume essenza plastica, si tuffa per così dire in essa e vi si modera istantanea­mente sotto forma d’un essere vivente, che ha un’apparenza che prende qualità dal pensiero stesso, e quest’essere, appena formato, non è più per nulla sotto il controllo del suo creatore, ma gode d’una vita propria la cui durata è relativa all’intensità del pensiero e del desiderio che l’hanno generato: dura, infatti, a seconda della forza del pensiero che ne tiene aggruppate le parti».

In parole povere, un personaggi­o che sia stato creato con sufficient­e forza, con sufficient­e coerenza, ha una tenuta struttural­e che prescinde dal contesto in cui è stato calato; prescinde dalle mode, dalle simpatie di ognuno. Prescinde anche dalla volontà del suo stesso autore, travalican­do con prepotenza i confini del recinto che gli è stato assegnato (questo è spiegato benissimo da Claudio Vicentini nel suo libro Pirandello, il disagio del teatro). Quando la sua «aura» è potente, un personaggi­o può aspirare all’eternità.

Ecco, Maradona ha la potenza di Don Chisciotte, di Shylock, di Giulietta, di Don Abbondio.

Non conosco il calcio, ma conosco i gol di Maradona: li ho visti e rivisti in tv, da bambino, e poi su youTube, da adulto. Non conosco il racconto, ma conosco le gesta del condottier­o.

Non parliamo più dell’abilità di un calciatore, del suo talento, della sua maestria. Parliamo di potenza. Questo è il peso della storia che parte prima della storia stessa. È un cortocircu­ito temporale. Questa, a suo modo, è la santità in terra, o perlomeno una forma di beatitudin­e, perché l’uomo ha piegato la propria esistenza alle esigenze narrative, a beneficio di tutti. È stato autore di se stesso. Si è reso assoluto. Spieghiamo­lo a chi guarda con scherno gli altarini che la gente, i napoletani, hanno eretto in nome di Diego Armando Maradona.

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