Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Diario Malinconico
Quando un caso di stupro rimbalza sulle pagine dei giornali e — magari per ambientazione, scenografia, visibilità, posizione sociale dei protagonisti, — diventa argomento di dibattito televisivo per un po’, è quasi fisiologica la sortita di qualche censore non richiesto.
Che interviene nel chiacchiericcio in modalità politically incorrect, buttando lì la battutina raggelante (secondo lui spiritosa) fatta per dire, nella sostanza ma anche nella forma, che se alla poverina è capitato se l’è cercata.
È un’argomentazione vecchia come il cucco, che tuttavia non spira perché conta su un esercito di fedelissimi che la rianimano a scadenze regolari, recitandola come un mantra per pappagalli. Il fatto è che pregiudicare è comodo, rapido, distensivo: non t’impegna, non ti compromette, e presenta il vantaggio di confonderti nel mucchio. Basta limitarti ad avallare una condanna già emessa, come il giudice popolare di una corte che ha deciso da un pezzo chi mandare in galera.
Anche a voler momentaneamente prescindere dalla povertà contenutistica dell’argomento («Se l’è cercata» o, con la variante classica «Almeno un po’ se l’è cercata»: dove l’Almeno un po’ allude alla configurabilità di un concorso di colpa), quello che mi ha sempre sbalordito di questo tipo di ricorrenza mediatica è la velocità e la sicurezza del giudicante. Il censore (della vittima) che esterna per la gioia dei suoi followers, ha una strepitosa cognizione di causa. Parla come se sapesse già tutto. Come avesse colto intenzioni e retroscena di ognuna delle parti. Come avesse già istruito la causa, sentito i testimoni, valutato perizie di parte e d’ufficio, dichiarato aperto e chiuso il dibattimento, procedendo poi all’emissione della sentenza. Un giurista portentoso. Un fenomeno. Avercene, di fuoriclasse come lui, sai da quanto tempo avremmo risolto i problemi della giustizia.
Peccato che siamo in uno stato di diritto, e che i processi si fanno nelle aule di tribunale, dove il mantra di cui sopra non conta una ceppa. Perché il processo è una cosa seria, e non si fa con i pettegolezzi. Basterebbe — credo — quest’ovvia osservazione per deporre tra gli scarti organici il pregiudizio di cui sopra, con tutto il giudice. Ma la questione è più seria, e ha a che fare con la scelta di una parte. Perché di questo si tratta, quando si parla di violenza. Stare con chi la violenza la subisce o con chi la esercita. E non c’è modo migliore di esprimere solidarietà a uno stupratore che biasimare la vittima. Alludere alla responsabilità, o addirittura alla malafede della parte più debole, vuol dire infangarla o almeno considerarla corresponsabile dello stupro. Come se poi (altro sottotesto del pregiudizio) la violenza subita non fosse così grave, e neanche indesiderata.
Il malpensiero comune è impastato di queste allusioni sporche, di questo giustificazionismo connivente che in fondo condona questo genere di episodi e lascia la vittima nell’angolo a leccarsi le ferite, quando addirittura non la disprezza.
La violenza produce non solo dolore ma anche vergogna. È su quella che lo stupratore, soprattutto, gioca. Il lavoro da fare è rilanciargli quella vergogna in faccia, perché è lui, e lui solo, che deve nascondersi e vivere nel ribrezzo di sé.
A sabato prossimo.