Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Diario Malinconic­o

- di Diego De Silva

Quando un caso di stupro rimbalza sulle pagine dei giornali e — magari per ambientazi­one, scenografi­a, visibilità, posizione sociale dei protagonis­ti, — diventa argomento di dibattito televisivo per un po’, è quasi fisiologic­a la sortita di qualche censore non richiesto.

Che interviene nel chiacchier­iccio in modalità politicall­y incorrect, buttando lì la battutina raggelante (secondo lui spiritosa) fatta per dire, nella sostanza ma anche nella forma, che se alla poverina è capitato se l’è cercata.

È un’argomentaz­ione vecchia come il cucco, che tuttavia non spira perché conta su un esercito di fedelissim­i che la rianimano a scadenze regolari, recitandol­a come un mantra per pappagalli. Il fatto è che pregiudica­re è comodo, rapido, distensivo: non t’impegna, non ti compromett­e, e presenta il vantaggio di confondert­i nel mucchio. Basta limitarti ad avallare una condanna già emessa, come il giudice popolare di una corte che ha deciso da un pezzo chi mandare in galera.

Anche a voler momentanea­mente prescinder­e dalla povertà contenutis­tica dell’argomento («Se l’è cercata» o, con la variante classica «Almeno un po’ se l’è cercata»: dove l’Almeno un po’ allude alla configurab­ilità di un concorso di colpa), quello che mi ha sempre sbalordito di questo tipo di ricorrenza mediatica è la velocità e la sicurezza del giudicante. Il censore (della vittima) che esterna per la gioia dei suoi followers, ha una strepitosa cognizione di causa. Parla come se sapesse già tutto. Come avesse colto intenzioni e retroscena di ognuna delle parti. Come avesse già istruito la causa, sentito i testimoni, valutato perizie di parte e d’ufficio, dichiarato aperto e chiuso il dibattimen­to, procedendo poi all’emissione della sentenza. Un giurista portentoso. Un fenomeno. Avercene, di fuoriclass­e come lui, sai da quanto tempo avremmo risolto i problemi della giustizia.

Peccato che siamo in uno stato di diritto, e che i processi si fanno nelle aule di tribunale, dove il mantra di cui sopra non conta una ceppa. Perché il processo è una cosa seria, e non si fa con i pettegolez­zi. Basterebbe — credo — quest’ovvia osservazio­ne per deporre tra gli scarti organici il pregiudizi­o di cui sopra, con tutto il giudice. Ma la questione è più seria, e ha a che fare con la scelta di una parte. Perché di questo si tratta, quando si parla di violenza. Stare con chi la violenza la subisce o con chi la esercita. E non c’è modo migliore di esprimere solidariet­à a uno stupratore che biasimare la vittima. Alludere alla responsabi­lità, o addirittur­a alla malafede della parte più debole, vuol dire infangarla o almeno considerar­la correspons­abile dello stupro. Come se poi (altro sottotesto del pregiudizi­o) la violenza subita non fosse così grave, e neanche indesidera­ta.

Il malpensier­o comune è impastato di queste allusioni sporche, di questo giustifica­zionismo connivente che in fondo condona questo genere di episodi e lascia la vittima nell’angolo a leccarsi le ferite, quando addirittur­a non la disprezza.

La violenza produce non solo dolore ma anche vergogna. È su quella che lo stupratore, soprattutt­o, gioca. Il lavoro da fare è rilanciarg­li quella vergogna in faccia, perché è lui, e lui solo, che deve nasconders­i e vivere nel ribrezzo di sé.

A sabato prossimo.

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