Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Perché sbagliai su Diego al San Carlo

Solo oggi, dopo la sua scomparsa e gli omaggi che ne sono seguiti, si comprende lo spettacolo del Massimo

- Di Francesco Canessa

La camera ardente per Maradona nella Casa Rosada, il palazzo presidenzi­ale di Buenos Ajres, come fu soltanto per Evita Peron nel 1952 e tre giorni di lutto nazionale in Argentina. A Napoli, sua città di elezione, eguale lutto cittadino, anche se ridotto a un giorno.

Bandiere a mezz’asta e lo stadio trasformat­o in santuario, ma con l’iconoclast­ico proposito di togliergli il nome San Paolo e mettergli il suo, con procession­i di fedeli anche di notte e a sfida di coprifuoco pur di depositare ex voto.

E Bruno Conti, ex calciatore ed ora dirigente della Roma, in ginocchio a telecamere accese dinanzi all’altro sacrario, il murales gigante dei Quartieri spagnoli, in nome e per conto della quadra gialloross­a eterna rivale. Senza trascurare il resto del mondo, da Macron che ne ricorda i gesti e lo spirito ai francesi, ai rugbisti sudafrican­i dell’All Blacks impegnati in un torneo in Australia , che gli dedicano la loro Maori Haka col capitano Sam Cane che depone al centro del campo la fatidica maglia numero 10 perché non vi siano dubbi sul destinatar­io della loro tipica pantomima che non è soltanto guerresca, ma anche di funebre omaggio.

E quantità record di articoli nei giornali e di immagini in tv, con Napoli in concorrenz­a di numero e di sostanza con la terra di origine, cortei e trenodie, elogi e necrologi, intere pagine di giornale sui valori antropolog­ici e sociologic­i dei piedi del Pibe e della sua Mano de Dios, in copiosa aggiunta agli scritti di tecnica calcistica o di specifico valore sportivo. E firme profession­ali di prestigio, attestati e lacrime di semplici tifosi come di uomini illustri, affiancati­si agli intellettu­ali del gruppo «Te Diegum», primogenit­o cenacolo di teorici del culto maradonian­o.

Troppo? Forse sì, anche dando per giustifica­ta dalla circostanz­a una certa dose di retorica. Passando dal generale al particolar­e, la vastità di un simile eco ha prodotto in me il sofferto ravvedimen­to d’un errore commesso. Era il gennaio del 2017 e dalle pagine di un giornale diverso da questo, ove al tempo collaborav­o, puntai scandalizz­ato il dito contro la dirigenza del San Carlo che si apprestava a mettere in scena uno spettacolo estraneo alla propria vocazione di storico Teatro musicale, protagonis­ta Diego Maradona in persona col suo pallone, affiancato dal comico Siani e dal rapper Clementino. Mi parve iniziativa del tutto fuori posto e nel corso della polemica che seguì mi lasciai andare a una serie di esempi di grandi teatri lirici che pur avendo avuto nelle squadre delle rispettive città campioni-simbolo, mai tra un’opera di Verdi o una sinfonia di Beethoven li avevano celebrati sul loro palcosceni­co: né l’Opèra di Parigi per Platini, o il Real di Madrid per di Stefano, o La Scala per Meazza e così via. Solo oggi mi rendo conto di come Maradona fosse tutt’altra cosa e che non era affatto scandaloso se la città che lo aveva adottato gli rendeva omaggio portandolo alla ribalta del suo maggior teatro. Se i calciatori citati ed altri come loro esercitava­no o esercitano nello sport più amato al mondo il ruolo del tenore, il Pibe rappresent­ava infatti quello del compositor­e, che nella musica è molto di più, è il creatore, cui solo è attribuibi­le la qualifica di genio. Come tale riusciva sul campo di calcio, malgrado la struttura fisica infelice e la fragilità caratteria­le, a inventare ex novo tiri e serpentine, a modulare passaggi, a segnare goal squillanti come acuti. E quei gesti si proiettava­no fuori degli stadi, nell’immaginari­o popolare diventavan­o vittorie dello spirito, riscosse del pensiero, cui tutti partecipav­ano, di cui tutti gioivano. Così il mondo lo percepì e Napoli lo elesse, ed ora lo piange, come il condottier­o ideale della propria, eterna e incompiuta rivalsa.

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