Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Perché sbagliai su Diego al San Carlo
Solo oggi, dopo la sua scomparsa e gli omaggi che ne sono seguiti, si comprende lo spettacolo del Massimo
La camera ardente per Maradona nella Casa Rosada, il palazzo presidenziale di Buenos Ajres, come fu soltanto per Evita Peron nel 1952 e tre giorni di lutto nazionale in Argentina. A Napoli, sua città di elezione, eguale lutto cittadino, anche se ridotto a un giorno.
Bandiere a mezz’asta e lo stadio trasformato in santuario, ma con l’iconoclastico proposito di togliergli il nome San Paolo e mettergli il suo, con processioni di fedeli anche di notte e a sfida di coprifuoco pur di depositare ex voto.
E Bruno Conti, ex calciatore ed ora dirigente della Roma, in ginocchio a telecamere accese dinanzi all’altro sacrario, il murales gigante dei Quartieri spagnoli, in nome e per conto della quadra giallorossa eterna rivale. Senza trascurare il resto del mondo, da Macron che ne ricorda i gesti e lo spirito ai francesi, ai rugbisti sudafricani dell’All Blacks impegnati in un torneo in Australia , che gli dedicano la loro Maori Haka col capitano Sam Cane che depone al centro del campo la fatidica maglia numero 10 perché non vi siano dubbi sul destinatario della loro tipica pantomima che non è soltanto guerresca, ma anche di funebre omaggio.
E quantità record di articoli nei giornali e di immagini in tv, con Napoli in concorrenza di numero e di sostanza con la terra di origine, cortei e trenodie, elogi e necrologi, intere pagine di giornale sui valori antropologici e sociologici dei piedi del Pibe e della sua Mano de Dios, in copiosa aggiunta agli scritti di tecnica calcistica o di specifico valore sportivo. E firme professionali di prestigio, attestati e lacrime di semplici tifosi come di uomini illustri, affiancatisi agli intellettuali del gruppo «Te Diegum», primogenito cenacolo di teorici del culto maradoniano.
Troppo? Forse sì, anche dando per giustificata dalla circostanza una certa dose di retorica. Passando dal generale al particolare, la vastità di un simile eco ha prodotto in me il sofferto ravvedimento d’un errore commesso. Era il gennaio del 2017 e dalle pagine di un giornale diverso da questo, ove al tempo collaboravo, puntai scandalizzato il dito contro la dirigenza del San Carlo che si apprestava a mettere in scena uno spettacolo estraneo alla propria vocazione di storico Teatro musicale, protagonista Diego Maradona in persona col suo pallone, affiancato dal comico Siani e dal rapper Clementino. Mi parve iniziativa del tutto fuori posto e nel corso della polemica che seguì mi lasciai andare a una serie di esempi di grandi teatri lirici che pur avendo avuto nelle squadre delle rispettive città campioni-simbolo, mai tra un’opera di Verdi o una sinfonia di Beethoven li avevano celebrati sul loro palcoscenico: né l’Opèra di Parigi per Platini, o il Real di Madrid per di Stefano, o La Scala per Meazza e così via. Solo oggi mi rendo conto di come Maradona fosse tutt’altra cosa e che non era affatto scandaloso se la città che lo aveva adottato gli rendeva omaggio portandolo alla ribalta del suo maggior teatro. Se i calciatori citati ed altri come loro esercitavano o esercitano nello sport più amato al mondo il ruolo del tenore, il Pibe rappresentava infatti quello del compositore, che nella musica è molto di più, è il creatore, cui solo è attribuibile la qualifica di genio. Come tale riusciva sul campo di calcio, malgrado la struttura fisica infelice e la fragilità caratteriale, a inventare ex novo tiri e serpentine, a modulare passaggi, a segnare goal squillanti come acuti. E quei gesti si proiettavano fuori degli stadi, nell’immaginario popolare diventavano vittorie dello spirito, riscosse del pensiero, cui tutti partecipavano, di cui tutti gioivano. Così il mondo lo percepì e Napoli lo elesse, ed ora lo piange, come il condottiero ideale della propria, eterna e incompiuta rivalsa.