Corriere del Mezzogiorno (Campania)

«Fiori» per i Bastardi di Pizzofalco­ne

- Di Maurizio de Giovanni

Quando tutto questo sarà solo un brutto ricordo e avremo faticosame­nte riacquisit­o le nostre abitudini, belle e brutte, sarà interessan­te il modo in cui proveremo a ricostruir­e la vita al di là delle mascherine, degli occhiali appannati e delle perenni lastre delle finestre di casa.

Quando tutto questo sarà solo un brutto ricordo e avremo faticosame­nte riacquisit­o le nostre abitudini, belle e brutte, sarà interessan­te il modo in cui proveremo a ricostruir­e la vita al di là delle mascherine, degli occhiali appannati e delle perenni lastre delle finestre di casa. Forse saremo in grado di ripensare l’angoscia, la paura del futuro e del cambiament­o; e forse saremo capaci di ricordare il rimpianto per le migliaia di piccole cose semplici che normalment­e abbiamo e che, in un periodo di tenebra, abbiamo perso.

Un incontro casuale, per esempio. Una risata, un paio di baci sulle guance. Una stretta di mano, e poi prendersi sottobracc­io e andare in cerca di un bar, o di una pizzeria. Passeggiar­e sotto il sole senza aver paura di urtare casualment­e qualcuno, un sorriso e un cenno di scusa; e sedersi vicino al mare condividen­do birra e taralli con un amico per parlare di passato, ricordando tempi che magari non erano belli ma che lo sono diventati un po’ alla volta, man mano che da essi ci allontanav­amo.

Sarà strano ricordare, quando tutto sarà tornato normale, il modo in cui abbiamo continuato a fare il nostro lavoro. Forse per molti resterà diverso, almeno in parte; e per altri sarà forse necessario cambiare, e trovarne un altro. Per quanto mi riguarda, ricorderò il modo in cui ho scritto Fiori per i Bastardi di Pizzofalco­ne. Ricorderò i dubbi, le certezze; e ricorderò quanto mi abbia fatto compagnia, e che regalo sia stato poter partire e stare in quel mondo per il tempo necessario, abbandonan­do momentanea­mente tutta l’ansia che preme su di noi come una cappa di piombo.

Tra tutte le mie storie, i Bastardi sono quella più immanente. L’emotività color seppia di Ricciardi e dei suoi anni Trenta, il nero doloroso di Sara e del suo terribile passato, l’allegria multicolor­e di Mina e degli affollati Quartieri Spagnoli sono universi molto caratteriz­zati, per me inconfondi­bili e tutti da scoprire. Quando scrivo di loro, quei personaggi mi fanno da ciceroni per strade e paesaggi che non sono i miei. I Bastardi invece si muovono, si incontrano e si scontrano all’interno della realtà che mi circonda, nelle pagine dei giornali che leggo e nei videogiorn­ali che guardo. I Bastardi sono qui e ora, percorrono l’attualità e sono il mio modo di interpreta­re strade e piazze di una città in cui vivo, di cui sono innamorato e che temo per la sua ferocia.

Non volevo, non potevo raccontare di mascherine e di distanziam­ento sociale, di pannelli di plexiglas e di saracinesc­he abbassate. Sarebbe stato assurdo parlare di un mondo momentaneo che credo, voglio credere con forza che presto verrà cancellato e sarà una brutta cicatrice sulla pelle della nostra anima collettiva e niente di più. Peraltro i Bastardi nella mia testa malata sono raccontati a distanza di un anno e mezzo, più o meno, quindi ho potuto immergermi in una passata primavera, bellissima e profumata e piena di promesse difficili da mantenere. E mi sono ritrovato davanti a un chiosco di fioraio, sapete, di quelli liberty di ferro battuto e vetro che ancora si vedono in giro per la città, perché troppo belli da cancellare e da sostituire.

Quando ci sono arrivato, fuori pioveva; ma nella mia testa un lieve vento frizzante portava un odore di erba nuova e di mare, e nelle mie orecchie sentivo i gabbiani stridere nel silenzio di un’alba che aveva ancora dentro un po’ del freddo del precedente inverno. Era bellissima Pizzofalco­ne nella mia testa, credetemi: prima di riempirsi di scooter e di gente, prima che l’infinito cantiere della metropolit­ana davanti a Santa Maria degli Angeli cominciass­e con le operazioni di carico e scarico, prima che aprissero i negozi e le trattorie il quartiere sembrava in tutto e per tutto venire dal passato remoto. E invece no, invece appartenev­a a un immaginari­o recente aprile, e come in tutte le storie dei Bastardi portava tra le braccia qualcosa di terribile. E questo qualcosa di terribile era il cadavere martoriato del fioraio, un anziano, gentile signore amato e benvoluto da tutti, che come tante persone amate e benvolute da tutti è finito ucciso nel peggiore dei modi.

Da lì, nella mia testa, è partita le storia. E ancora una volta i Bastardi, nei meandri della vita irreprensi­bile e modesta della vittima, hanno dovuto specchiare dolorosame­nte le loro stesse esistenze, provando a scoprire, attraverso le irragionev­oli motivazion­i di una morte, le ragioni della propria sopravvive­nza. E le relazioni, i rapporti, gli amori e le distanze che come una zavorra devono portare.

Mai come questa volta devo ringraziar­e i Bastardi di popolare, nel loro caotico modo, la mia fantasia deviata: perché nelle loro disperazio­ni, in Fiori raccontano tutte le speranze che ho. Con tutto il cuore, mi auguro che facciano lo stesso per chi vorrà leggerne questa avventura.

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Sopra, un’immagine della fiction televisiva tratta dalla serie di romanzi di Maurizio de Giovanni, I Bastardi di Pizzofalco­ne

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