Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Le cure che il Sud non ha
A cominciare da chi, di questa terra, ha ancora nelle proprie mani la massima rappresentanza politica, e preferisce non vedere quel che ha di fronte, pur di inseguire primati e traguardi che stanno ormai solo nella sua testa. Per non dire della fuga ininterrotta di malati verso gli ospedali del Nord, accompagnata da quella, parallela e non meno significativa, dei medici.
Dietro una situazione così negativa si profila in tutta la sua portata il disastro dell’intera sanità meridionale. Non solo in Campania, ma in Calabria, in Sicilia: montagne di debiti, fiumi di denaro finiti nell’oscurità, prestazioni sempre più scadenti, non riscattate da qualche isolata oasi di eccellenza. Per le cure e la prevenzione a Napoli è diventato impossibile quel che a Milano è considerata quotidiana routine. In che modo uno stato di cose così compromesso possa essere arginato e addirittura capovolto dagli effetti di un provvedimento come quello dell’autonomia differenziata resta assolutamente un mistero.
Eppure è proprio da qui che bisogna partire. Perché la catastrofe della Sanità nel Mezzogiorno chiama in causa qualcosa di più generale e complessivo: cinquanta anni di regionalismo meridionale; anzi: di regionalismo italiano. È qui il vero punto nodale. Se non lo si affronta – prima intellettualmente e poi politicamente – non c’è verso di venire a capo di nulla.
Ha perfettamente ragione Marco Demarco – in un bell’intervento apparso martedì scorso su questo giornale – quando denuncia in proposito l’atteggiamento contraddittorio della sinistra, e ci ricorda che l’autonomia differenziata oggi combattuta in prima fila dal Pd è figlia della pasticciata riforma del Titolo V della Costituzione varata frettolosamente proprio dalla sinistra nel 2001, sia pure solo per contingenti motivi di tattica politica. Ma ricostruire questa malaugurata genealogia non sposta purtroppo i termini della questione. Dimostra solo, una volta di più, che chi semina vento raccoglie tempesta, e che da un cambiamento sin dall’inizio improvvido non poteva che discendere altro, prima o poi, se non conseguenze ancora peggiori.
È del tutto vero, come sostiene Demarco, che un provvedimento come quello sull’autonomia dovrebbe essere considerato piuttosto «una sfida» che un male da contrastare. Ma questo sarebbe stato possibile solo se le condizioni di partenza fossero
state diverse, e se un di più di autonomia, per giunta variabile, venisse somministrato a un sistema già in equilibrio, e capace di performance giudicate, nel loro insieme, positive e ispirate all’efficienza e alla produttività: cioè a uno standard elevato di servizi alla cittadinanza. Ma se immettiamo maggiore autonomia in un dispositivo già di per sé squilibrato e problematico, quante probabilità ci sono che l’esito, invece di essere virtuoso, non produca piuttosto nuove fratture e più accentuate criticità? Come si fa a non ammettere che la risposta pessimistica ha dalla sua parte ragione e buon senso?
Ancora una volta è nel vero Demarco quando scrive che l’autonomia appartiene al dna della sinistra italiana: la vecchia e gloriosa idea di stringere il Paese in una rete di assemblee elettive, dai consigli scolastici e di quartiere su, su, sino al Parlamento.
Ma bisogna avere la forza di chiedersi: a distanza di cinquant’anni, quanto di quella concezione ha retto
alla prova della nostra storia? E per cominciare: quanto l’impianto del regionalismo italiano – non solo quello meridionale – ha davvero contribuito al radicamento della democrazia nel Paese, e quanto invece ha solo allargato la rete delle clientele, l’infeudamento territoriale e personalistico della politica, e ha moltiplicato in modo improduttivo i centri di spesa?
Un serio e spietato bilancio in questa direzione sarebbe una priorità assoluta, prima di porre mano a ulteriori interventi, di qualsivoglia natura. Ma per farlo ci vuole coraggio, intellettuale e politico. E il coraggio, se non c’è, uno non se lo può dare. Questo vale certo per la sinistra, che sa mettere solo la testa nella sabbia, pur di non vedere come è cambiato il mondo. Ma nemmeno la destra è messa meglio, che voleva rivoltare da cima a fondo l’Italia, e non sa nemmeno come uscire dalle strettoie (chiamiamole così) del suo non proprio felice passato.