Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Niccolini scenografo, dalla mostra al catalogo
ro finiscano presto. Ma sono o possono essere trattati come «cose» anche le campagne d’odio, le teorie cospirazioniste, omofobe e razziste. Seguite più per emulazione che per effettiva adesione profonda, hanno i loro oggetti distintivi che proliferano sul web.
Siamo caduti un po’ tutti nella trappola descritta da Erich Fromm: «non si vive per vivere, si vive per avere e per mostrare». Perché è nell’Essere che noi trasmettiamo i nostri valori, ma è con l’Avere che ne accettiamo i simboli. Tuttavia è una semplificazione ridurre la vita all’antagonismo tra «avere» ed «essere», nel senso che per vivere dobbiamo anche avere. La grande frattura è data dal fatto che abbiamo tradotto molta della nostra esistenza in «cose», tanto che il verbo avere ha sostituito anche nel nostro linguaggio quotidiano il significato dell’essere, dei sentimenti, delle emozioni o delle preferenze. «È la mia donna», piuttosto che «Mi sono innamorato». «Voglio quel panettone. Proprio quello della Ferragni!» piuttosto che «Mi piace il panettone, mi ricorda il Natale». Altra cosa, dunque, è «possede
non soltanto la nostra immagine, ma la nostra identità e le nostre aspirazioni di vita.
Charlie Chaplin, in «Il grande dittatore» fa, in assoluto, uno dei discorsi più belli che siano mai stati fatti a proposito del potere delle cose: «L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, fatto precipitare il mondo nell’odio, condotti a passo d’oca verso le cose più abiette./ La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformati in cinici, l’abilità ci ha resi duri e cattivi. / Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchine ci serve umanità, più che abilità ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità la vita è vuota e violenta e tutto è perduto».
Tuttavia, in una società dei consumi auspicare di sopravanzare totalmente la dimensione dell’Avere rimane un’affermazione utopistica. Sì lo è, perché noi non possiamo svincolare del tutto la nostra realtà dagli oggetti. A patto che rimanga un vincolo sano, dove l’ansia di omologazione non renda passivi rispetto alle opportunità che la vita ci offre.
Abbiamo bisogno di accettare la sfida di una nuova «pedagogia del virtuale» che «faccia status». Una sfida che ha ampiamente accolto La 7, sia televisiva che on-line, puntando sull’«oggetto cultura» anche di sabato sera, con i programmi di Gramellini, Cazzullo e Augias, per esempio. Manifestare di essere innamorati della cultura e di quanti la praticano significa provare costantemente ad «avere» oggetti culturali. Non è un paradosso. Una pedagogia delle cose può anche voler «possedere» cose speciali e contro corrente. E saperle diffondere sul web, perché i social sanno amplificare il messaggio, mettendo in rete il nostro desiderio di qualità e la ricchezza del pensiero. «La modalità dell’essere, ha come prerequisiti l’indipendenza, la libertà e la presenza della ragione critica», ci dice ancora Erich Fromm.
Questa è una delle sfide pedagogiche del nostro tempo. Imparare a muoversi in forma non superficiale né indifferente nel flusso della comunicazione digitate per incidere sull’educazione degli adolescenti come in una vera e propria «educazione parallela». A patto che non renda, scrive ancora Pasolini «tutti i giovani di oggi … infelici. … Tu povero Gennariello, sei nato … per essere felice dell’edonismo del consumatore. Il risultato è che la tua felicità è completamente falsa».