Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Una tribù che piange: con noi o contro di noi
Sinceramente non credo che l’altra sera il pubblico dell’Ariston abbia fischiato Geolier per una forma di razzismo, credo che semplicemente non abbia apprezzato la sua esibizione e di conseguenza avrebbe voluto qualcun altro al primo posto.
Personalmente mi è piaciuta molto Angelina Mango che ha interpretato La rondine, un brano per nulla facile sia vocalmente, sia perché Angelina è figlia di Pino, grande artista lucano scomparso prematuramente. E soprattutto ho amato la cover di Leonard Cohen, Hallelujah, rifatta dai bravissimi Santi francesi con la meravigliosa Skin. Forse loro avrebbero meritato di più, ma una cosa è certa: Geolier, con il suo medley, ha portato sul palco di Sanremo la musica reale, non quella ascoltata da chi era in platea, ma quella che ascoltano i ragazzini: il pop rap di Guè e Luchè insieme alla voce verace di Gigi D’Alessio.
Espressioni, il rap e il neomelodico, apparentemente lontani, ma che nascono dallo stesso disagio. Generi musicali in cui c’è un’omogeneità sociale tra chi produce e ascolta e che ormai da anni a Napoli si sono fusi in quello che viene definito urban, facendo numeri che fanno rabbrividire le popstar italiane. Una musica a uso e consumo di una determinata fascia sociale che prima non aveva voce e che l’ha trovata negli anni ’80 con i primi cantautori delle nuove periferie: Patrizio e Nino D’Angelo.
I ragazzini che trent’anni fa sognavano di diventare neomelodici come Franco Ricciardi, Gigi D’Alessio, Luciano Caldore, oggi sognano di diventare rappers come Geolier, Clementino e Rocco Hunt.
A me quello che spaventa è piuttosto il fenomeno Napoli, ogni sua espressione simbolica che arriva al successo sembra ogni volta doversi giustificare, facendo scaturire cori da stadio che dividono i napoletani e il paese.
Siamo una tribù indiana contro il mondo che non ha alternativa se non quella di stare con o contro di noi. Se non piaciamo a qualcuno è perché è razzista, se, invece, gli piaciamo deve imparare a parlare in napoletano. Una vera e propria tribù sull’orlo dell’estinzione se ogni vittoria del singolo diventa il successo di un popolo, l’occasione di rivendicare chi siamo per non morire.
Come nell’America degli anni Sessanta, quando per le canzoni c’erano due classifiche: quella dei bianchi e quella dei neri. Non a caso i musicisti napoletani degli anni Settanta sono stati soprannominati i «negri del Vesuvio». E la cosa assurda è che una canzone in dialetto al festival di Sanremo faccia ancora così scalpore, una canzone che nel 1700 rappresentava l’Italia nel mondo.
Sentiamo continuamente il bisogno di difendere e rappresentare la nostra città e chi non lo fa viene accusato di tradimento. Credo sia proprio questo continuo bisogno di autorappresentarsi a marcare ancora di più il fatto che restiamo, e forse
resteremo per sempre, una capitale orfana del proprio regno. Un bisogno che fa emergere tutte le contraddizioni che ancora ci portiamo dentro.
Napoli ha mille sfumature e si può essere napoletani in molti modi proprio come ogni città di questo mondo, anche se ci piace pensare che la nostra sia la più bella e la più speciale.
Anche i The Kolors vengono da Napoli, così come la Nina, eppure non hanno aizzato le masse per il televoto e non si sono fatti portavoce di una lingua, di un popolo e di una identità. Un’identità che se da una parte è la nostra forza, dall’altra è anche la nostra morte. Quando abbandoneremo il sogno malato di voler napoletanizzare il mondo, quando non avremo più bisogno di un capopopolo che ci difenda e ci rappresenti, diventeremo davvero ciò che siamo e allora non avremo più bisogno né di dirlo e né di dimostrarlo.