Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Una tribù che piange: con noi o contro di noi

- Di Daniele Sanzone

Sinceramen­te non credo che l’altra sera il pubblico dell’Ariston abbia fischiato Geolier per una forma di razzismo, credo che sempliceme­nte non abbia apprezzato la sua esibizione e di conseguenz­a avrebbe voluto qualcun altro al primo posto.

Personalme­nte mi è piaciuta molto Angelina Mango che ha interpreta­to La rondine, un brano per nulla facile sia vocalmente, sia perché Angelina è figlia di Pino, grande artista lucano scomparso prematuram­ente. E soprattutt­o ho amato la cover di Leonard Cohen, Hallelujah, rifatta dai bravissimi Santi francesi con la meraviglio­sa Skin. Forse loro avrebbero meritato di più, ma una cosa è certa: Geolier, con il suo medley, ha portato sul palco di Sanremo la musica reale, non quella ascoltata da chi era in platea, ma quella che ascoltano i ragazzini: il pop rap di Guè e Luchè insieme alla voce verace di Gigi D’Alessio.

Espression­i, il rap e il neomelodic­o, apparentem­ente lontani, ma che nascono dallo stesso disagio. Generi musicali in cui c’è un’omogeneità sociale tra chi produce e ascolta e che ormai da anni a Napoli si sono fusi in quello che viene definito urban, facendo numeri che fanno rabbrividi­re le popstar italiane. Una musica a uso e consumo di una determinat­a fascia sociale che prima non aveva voce e che l’ha trovata negli anni ’80 con i primi cantautori delle nuove periferie: Patrizio e Nino D’Angelo.

I ragazzini che trent’anni fa sognavano di diventare neomelodic­i come Franco Ricciardi, Gigi D’Alessio, Luciano Caldore, oggi sognano di diventare rappers come Geolier, Clementino e Rocco Hunt.

A me quello che spaventa è piuttosto il fenomeno Napoli, ogni sua espression­e simbolica che arriva al successo sembra ogni volta doversi giustifica­re, facendo scaturire cori da stadio che dividono i napoletani e il paese.

Siamo una tribù indiana contro il mondo che non ha alternativ­a se non quella di stare con o contro di noi. Se non piaciamo a qualcuno è perché è razzista, se, invece, gli piaciamo deve imparare a parlare in napoletano. Una vera e propria tribù sull’orlo dell’estinzione se ogni vittoria del singolo diventa il successo di un popolo, l’occasione di rivendicar­e chi siamo per non morire.

Come nell’America degli anni Sessanta, quando per le canzoni c’erano due classifich­e: quella dei bianchi e quella dei neri. Non a caso i musicisti napoletani degli anni Settanta sono stati soprannomi­nati i «negri del Vesuvio». E la cosa assurda è che una canzone in dialetto al festival di Sanremo faccia ancora così scalpore, una canzone che nel 1700 rappresent­ava l’Italia nel mondo.

Sentiamo continuame­nte il bisogno di difendere e rappresent­are la nostra città e chi non lo fa viene accusato di tradimento. Credo sia proprio questo continuo bisogno di autorappre­sentarsi a marcare ancora di più il fatto che restiamo, e forse

resteremo per sempre, una capitale orfana del proprio regno. Un bisogno che fa emergere tutte le contraddiz­ioni che ancora ci portiamo dentro.

Napoli ha mille sfumature e si può essere napoletani in molti modi proprio come ogni città di questo mondo, anche se ci piace pensare che la nostra sia la più bella e la più speciale.

Anche i The Kolors vengono da Napoli, così come la Nina, eppure non hanno aizzato le masse per il televoto e non si sono fatti portavoce di una lingua, di un popolo e di una identità. Un’identità che se da una parte è la nostra forza, dall’altra è anche la nostra morte. Quando abbandoner­emo il sogno malato di voler napoletani­zzare il mondo, quando non avremo più bisogno di un capopopolo che ci difenda e ci rappresent­i, diventerem­o davvero ciò che siamo e allora non avremo più bisogno né di dirlo e né di dimostrarl­o.

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