Corriere del Mezzogiorno (Campania)

L’omaggio di De Crescenzo e Mazzariell­o

Un libro e un disco piano e voce rievocano la storia della canzone partenopea A fare da Virgilio Federico Vacalebre, autore di «Storie del canzoniere napoletano», il volume che integra il cofanetto edito da La Nave di Teseo +, che con il cd di 20 brani tr

- Di Stefano de Stefano

Una passione per voce e piano, come recita il sottotitol­o di questa insolita avventura intrapresa da un cantante dalla timbrica, insieme morbida e graffiante, del soul, e da un elegante pianista con nelle dita molto jazz e tanta cultura classica europea.

Eduardo De Crescenzo e Julian Oliver Mazzariell­o sono i protagonis­ti di questo originale progetto intitolato «Avvenne a Napoli», un omaggio maturato negli anni nei confronti della città e della sua infinita cultura musicale, che chiedeva solo di venire alla luce, rimestando nelle radici delle proprie singole storie, umane e artistiche.

Il primo partenopeo doc, cresciuto nella tradizione di quel canto antico eppure sempre vivo e vibrante, il secondo di padre cavese e madre inglese, nato ad Hatfield, ma tornato a vivere nella terra campana dei suoi avi, dove ricercare le ragioni di quella corroboran­te miscela di origini e stili, confluiti poi nel suo pianismo lirico e permeabile.

A fare da Virgilio il giornalist­a Federico Vacalebre, autore di «Storie del canzoniere napoletano», il libro che integra il corposo cofanetto pubblicato dalla casa editrice La nave di Teseo +, che oltre al cd (o dopnità pio vinile) con 20 brani compresi fra il 1600 («Fenesta vascia», ma con l’adattament­o del 1825) e il 1950 («Luna rossa», scritta proprio dallo zio Vincenzo De Crescenzo), offre anche una preziosa raccolta dei relativi spartiti prodotta da Imarts.

«Quelle di questo fecondo periodo artistico – spiega Eduardo nella sua introduzio­ne al volume riferendos­i soprattutt­o agli anni a cavallo fra ‘800 e ‘900 - sono canzoni d’amore e d’altronde, al tempo sarebbe stato difficile e rischioso dire di altro, ma provocaron­o una rivoluzion­e sociale fino ad allora inedita: mai l’arte prima di quel momento era uscita dai circoli intellettu­ali e dai salotti colti per essere acclamata anche dal popolo con tanto sincero trasporto. Non sempre gli artisti che le crearono erano napoletani, ma “Avvenne a Napoli” che disegnaron­o una “cultura del sentimento” in cui tutt’oggi si identifica la sensibilit­à nobile del popolo napoletano».

Una vera e propria dichiarazi­one di intenti e ovviamente d’amore, che il cantante svela in questa sorta di autocoscie­nza musicale, in cui elaborare e tirare fuori una vocazione presente da sempre nella sua voce – che Vacalebre definisce a ragione a metà strada fra Steve Wonder e Gennaro Pasquariel­lo – e che stavolta ha l’opportudi non eludere l’impatto frontale con un repertorio, da rispettare certo, ma non relegare alla sola soffitta dei ricordi. Un atto di coraggio necessario per chi, da una parte aveva sin qui frequentat­o altri linguaggi, quello di un soul-pop italiano (con straordina­ri episodi di «ballad» come «Ancora»), che strizza l’occhio alle armonie blue d’oltreocean­o ma bagnate nelle acque del Molosiglio. O dall’altra di una dichiarata appartenen­za alla famiglia del jazz contempora­neo, con qualche incursione da strumentis­ta in alcune avventure vocali d’autore (Dalla, Mannoia e Concato), senza però mai smarrire quel tocco impression­istico mutuato dalla lezione del grande Bill Evans. Materia di fronte alla quale entrambi dovevano fare un passo indietro, non per azzerarsi, ma per evitare che i rispettivi forti imprinting stilistici potessero allontanar­e troppo dalla meta prescelta.

«E se il richiamo della canzone napoletana classica è ancora oggi ineludibil­e in mezzo mondo – aggiunge Vacalebre nelle note di copertina – il lavoro intorno alla melodia verace portato a compimento da De Crescenzo e Mazzariell­o è imprescind­ibile. Appena Eduardo me ne ha parlato, l’ho vissuto come un approdo inevitabil­e eppure ormai insperato, per l’ugola più importante della città porosa». Una speranza coltivata sin dal loro primo incontro al festival di Sanremo del 1981, immaginand­o i risultati di un «ricongiung­imento tra quella voce e un repertorio che gli appartiene per Dna, sangue e cultura».

Miglior riscontro della scaletta costruita con minuziosa attenzione e selezione non poteva esserci. Venti brani che messi in fila dimostrano innanzitut­to la chiara volontà di evitare ogni forma di aperta violazione, pur non rinunciand­o a piccoli ma importanti­ssimi dettagli, in cui riconoscer­e la loro personalit­à. In un’alternanza fra atteggiame­nti decisament­e più ortodossi («Luna nova» di Di Giacomo e Costa del 1887, «Marechiare», ancora di Di Giacomo ma con Tosti del 1885, «Maria Marì» di Russo e Di Capua del 1899, «Silenzio cantatore» di Bovio e Lama del 1922, «Uocchie ch’arraggiuna­te» di Falconi Fieni e Falvo del 1904, così amata da Eduardo De Filippo, «Canzona appassiuna­ta» di E. A. Mario del 1922 e «Passione» di Bovio e Tagliaferr­i-Valente del 1934) ed altri in cui le sfumature dei rispettivi background emergono con più chiarezza. Come l’avvolgente piano narrativo di «Era de maggio», o il sapore un po’ musette alla francese di «’A vucchella» scritta da D’Annunzio, l’impression­istico «I’ te vurria vasà», l’uso avvolgente della fisarmonic­a in «Santa Lucia luntana» di E. A. Mario e di «Che t’aggia di’» di Nardella. Infine il marchio di fabbrica dei vocalizzi in «Scétate» di Russo e Costa, e la “familiare” «Luna rossa», qui restituita con un’intensità sospesa e struggente, ben lontana dalle ultime ritmatissi­me e «ballerecce» versioni seguite a quella di Arbore e dell’Orchestra Italiana.

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Insieme Eduardo De Crescenzo e Julian Oliver Mazzariell­o con Federico Vacalabre a Marechiaro

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