Corriere del Mezzogiorno (Campania)
IL CUPIO DISSOLVI DI DE LUCA E LA SUA USCITA CON DISONORE
Con il termine mentecaptus (equiparato al furiosus), veniva invece indicato chi avesse una condotta tale, da far fortemente dubitare della sua lucidità mentale. In entrambi i casi, i giuristi romani escludevano la responsabilità, per la mancata consapevolezza, da parte del reo, degli effetti delle sue condotte o delle sue parole.
Troppe volte si è tentati di ricorrere a queste datate, ma eterne, categorie anche per valutare condotte e parole del presidente De Luca: non vi è più occasione pubblica, infatti, nella quale la incontinenza verbale del governatore non ispiri anche considerazioni di ordine clinico.
Ma per De Luca è forse più opportuno accedere invece alla diversa categoria della «lucida follia»: una variabile che aumenta, per contro, il titolo di responsabilità. Solo così, individuando il suo cinico disegno di perimetrare una area esclusiva (e personale) di intervento politico, di rivendicare nuovi spazi di agibilità in un partito che disprezza (e che ormai lo disprezza), di preservare una scemante rete di potere e clientela, può infatti comprendersi la serie interminabile di parole dissennate, di condotte scomposte, di atteggiamenti grevi che hanno trasformato in un folle show ogni pubblica esternazione del governatore.
Quanti miserevoli e deliranti propositi: tra gli ultimi, evocare sinistramente la lotta armata, paventare la insurrezione popolare, ovvero pretendere — con il compiaciuto servilismo dei più vili tra i suoi scherani — che i sindaci del territorio, nella loro veste istituzionale, si schierino apertamente contro le politiche del governo di Giorgia Meloni convintamente scelto dagli italiani.
Nel suo duro quanto lucido intervento su queste colonne, Antonio Polito — in merito alla assurda pretesa di De Luca di una «mobilitazione forzata» dei sindaci della Campania — ha condannato la crescente confusione tra Nazione e fazione, e la stratificazione tra istituzioni e partiti, ma a tratti è sembrato quasi indulgere alla deriva di una dinamica diffusa ovunque in Italia.
Su questo unico, ma qualificante punto, dissento fortemente: questa profonda deriva della «piazza istituzionale» (nella Repubblica, ma in realtà contro di essa) non riguarda infatti tutti i governatori, ma uno solo: Vincenzo De Luca.
Non accade altrove che il vertice di un Ente pubblico utilizzi la visibilità, gli spazi ed i mezzi della comunicazione istituzionale per diffamare, ingiuriare, offendere, provocare, o dileggiare — peraltro godendone apertamente — alleati ed avversari politici. Non accade altrove che un governatore denunci penalmente un ministro della Repubblica, in una sintesi mirabile di analfabetismo costituzionale, ignoranza giuridica, volgarità istituzionale e codardia politica.
Non accade altrove che un presidente di Regione, sotto le bandiere dell’istituzione che presiede — e che gli imporrebbe equilibrio, e terzietà istituzionale — giunga a vilipendere altri organi costituzionali, disonorando la sacralità e l’alto valore del suo mandato popolare.
Il costo sociale che la Regione Campania rischia di pagare per questo sconcio è altissimo: degrado della dialettica pubblica, imbarbarimento culturale, isolamento istituzionale e — inevitabilmente — perdita di risorse finanziarie. Tutto questo, in un crescente cupio dissolvi, per la insana e smodata considerazione di sé, da parte di un solo uomo.
Schopenauer diceva che la gloria bisogna conquistarla, mentre invece l’onore basta non perderlo. Nei lunghi e drammatici anni del suo governo regionale, De Luca non ha maturato titolo alcuno per assurgere alla gloria. Ed uscirà presto dalla scena, nel disonore.