Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Lo Cascio: con «Pà» porto in scena il Pasolini poeta
Da stasera al 26 in scena il monologo diretto da Marco Tullio Giordana dedicato allo scrittore
«Il mio sarà un Pasolini più metafisico e visionario, che dialoga con il cielo, la natura, il senso del nostro destino di uomini, diverso dal Pasolini che ti aspetti, quello politico e pedagogico, che ci indica la strada con le sue certezze». Luigi Lo Cascio sarà da stasera alle 21 e fino al 26 al Mercadante con «Pà», il monologo diretto da Marco Tullio Giordana dedicato al poeta di Casarsa.
Sappiamo della lunga collaborazione fra lei e il regista milanese, ma da dove nasce l’idea di tornare a Pasolini?
«L’occasione è stata offerta dal Teatro del Veneto di realizzare uno spettacolo in occasione del recente centenario della nascita dell’autore degli “Scritti corsari”. Ma in realtà per entrambi si trattava di tirare fuori una frequentazione con i testi pasoliniani. Più lunga, quella di Giordana, penso al film “Pasolini, un delitto italiano” del 1995, alla lettura che il mio Peppino Impastato fa della “Supplica alla madre” ne “I cento passi”, e infine a “La meglio gioventù”, titolo ripreso da una poesia in friulano poi tradotta dallo stesso autore in italiano, in cui si citano anche “Le Ceneri di Gramsci”».
E la sua?
«È iniziata 6-7 anni fa, quando recitando in un “Otello” teatrale con Vincenzo Pirrotta, andai a rivedere “Cosa sono le nuvole”, il film con Totò, Franco e Ciccio e Ninetto Davoli, che escono fuori dopo una recita dell’opera shakespeariana a riscoprire cosa c’è sopra le loro teste. Ecco mi colpì molto questa sua dimensione meno nota e più surreale, da cui mi è piaciuto partire immergendomi a capofitto nella lettura delle sue poesie».
Che saranno il filo conduttore dello spettacolo?
«Proprio così, dopo una sorta di prologo, partirò recitando questo flusso poetico che attraversa la sua storia, dalla nascita e l’infanzia felice in Friuli, passando per il dramma del processo per scandalo, l’allontanamento dal Pci e l’approdo a Roma, “stupenda e misera”, come lui la definì, tra frequentazioni intellettuali e di borgate, fino ai terribili profetici versi in cui immagina la sua morte violenta in contesti degradati, quasi un martire della Storia, interrogandosi su quale futuro avrà la memoria della sua opera».
Una sorta di autobiografia del poeta?
«Direi un autoritratto in versi, che coinvolgerà il pubblico in prima persona, non fornendogli visioni certe e unilaterali, ma sollecitando punti di vista e interesse su una vicenda umana e artistica, in cui scoprire per dirla con Giordana “cosa di lui sarà ancora vivo e cosa ingiallito, cosa ancora “portabile” e cosa riporre nell’armadio in attesa di tornare in auge come modernariato”».