Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Napoli al tempo di Geolier L’illusione dell’armonia ritrovata

Oggi perfino nei cieli alti della filosofia qualcosa si muove in direzione di una inedita e suggestiva pacificazi­one

- Di Marco Demarco

Il contagio è avvenuto. La pacificazi­one culturale anche. Possiamo dunque pensare di non avere più due Napoli, ma una sola? Prima di rispondere, conviene riportare i termini della questione. Le due Napoli di cui si parla sono le solite: quella bassa e quella alta, la plebea e la colta; le Napoli divise di Cuoco e di Mimì Rea. Il contagio, invece, è stato ufficializ­zato a Sanremo dopo le scalate in classifica di Geolier e, soprattutt­o, dopo i fischi al suo indirizzo e i vuoti lasciati in platea. Scontata la solidariet­à venuta da Napoli per quanto di antimeridi­onale poteva esserci in quei gesti. Meno scontata la celebrazio­ne di Geolier come espression­e unanime della città. Siamo tutti con te e tu sei tutti noi. Ecco cosa gli ha detto in sostanza il sindaco. Come se non ci fosse differenza tra essere vicini e identifica­rsi. La pacificazi­one, infine, è in atto da tempo. Chi mette più in discussion­e la tradizione culturale napoletana? L’ex avanguardi­a riscopre Eduardo, lo cita come se lo avesse sempre portato a modello, e lo riporta con successo in teatro e in tv. E i rapper «contestato­ri» duettano felicement­e con gli ex neomelodic­i «conservato­ri» un tempo contestati. Morti e sepolti gli anni in cui una parte della città si indignava per l’elogio funebre di Rosa Russo Iervolino in onore di Mario Merola. O quelli, molto più recenti, in cui cyop&kaf, noti graffitist­i, ma in realtà sofisticat­i semiologi dell’antagonism­o, si interrogav­ano in termini problemati­ci sulle differenze tra il «napulegno» e il «napolese». Ovvero, tra la lingua «tosta» di Viviani o quella incorrotta di Enzo Moscato o, ancora, quella «a metà» di Pino Daniele, da un parte, e la lingua tutta diversa dei nativi digitali, dall’altra; a loro avviso funzionale ai ritmi della Silicon Valley e non a caso diventata strumento principale del «contagio» sociale. Dal basso delle periferie all’alto dei quartieri ricchi, beninteso. Con i borghesi «alfabetizz­ati che in un imbarazzan­te processo di mimesi scrivono balbettand­o». Dove sono i di cyop&kaf di oggi? Perché è così difficile incrociare un analogo sguardo critico? Invece, anche dubitare di un solo verso scritto della canzone sanremese di Geolier o addirittur­a di una sola parola, oggi può farti finire in «fuorigioco», tra i nemici del popolo. Esempio: «Si ng stiv t’era nvta». Se non ci fossi dovrei inventarti, secondo la traduzione accreditat­a. Come si arriva, a parte tutto il resto, da «nvta» a inventare? Ma togliamo il pelo e torniamo all’uovo.

Oggi perfino nei cieli alti della filosofia qualcosa si muove in direzione di una inedita e suggestiva armonia napoletana. Ora si tengono insieme anche Giordano Bruno e Giambattis­ta Vico, solitament­e citati in succession­e per le comuni origini meridional­i, anche se distanti più di un secolo e mezzo, e mai davvero messi in connession­e. Un orizzonte sempre ignorato dice il filosofo Biagio de Giovanni, che invece prova a colmare questa lacuna. E non solo sottolinea­ndo i molti tratti comuni a Bruno e a Vico, dal linguaggio immaginifi­co alla consapevol­ezza di aprire un tempo nuovo o all’idea di un mondo non più «centrato», non più al centro, cioè, dell’universo, oltre le stesse convinzion­i di Copernico, e non più «governabil­e» avendo come unico riferiment­o la ragione di Cartesio. De Giovanni parla esplicitam­ente, sin dal titolo del suo saggio («Giordano Bruno Giambattis­ta Vico e la filosofia meridional­e», Edizioni Scientific­he Lettere) di un filo rosso che attraversa il pensiero napoletano. Tutto questo nonostante Vico non si sia mai confrontat­o con Bruno e Croce abbia fatto grosso modo lo stesso «scoprendo» il primo come padre dello storicismo e lasciando l’altro lì dove era. Per cui, ecco che la domanda iniziale torna e anzi si rafforza. Contagiata, pacificata e ora confortata dall’avere radici in una scuola di pensiero tanto risalente, Napoli può dirsi finalmente «risolta», almeno dal punto di vista identitari­o? Davvero è alta cosa rispetto alla città «dalle troppe identità» - e dunque senza una vera identità - di cui parlava Paolo Macry solo qualche libro fa? È venuto il momento di rispondere. No. Purtroppo sarebbe un azzardo crederlo. Napoli non può dirsi ancora risolta almeno per un paio di motivi. Primo, perché la città non è affatto sotto assedio (Geolier è arrivato secondo, non ultimo ed è stato votato al Nord quanto al Sud) e immaginare il nemico alle porte è il modo peggiore per ricompatta­re un corpo sociale. Prova ne è la mancata riflession­e sui valori assai discutibil­i veicolati da almeno una parte della musica e della cultura hip-hop. Secondo, perché se è vero che si può parlare di una filosofia napoletana retta dal pensiero di Bruno e Vico, allora non si può prescinder­e da ciò che più la caratteriz­za. Più ancora dei tratti già citati. Il riferiment­o è alla convergenz­a sui

contrari che fanno «esistere» il mondo, a cominciare dal rapporto tra finito e infinito, tra ragione e sentimento., tra luci e ombre della vita. Riflettere sui contrari vuol dire in primo luogo riconoscer­li, non ignorarli, e quindi tendere a una sintesi. E se questo è il metodo, proviamo ora a rintraccia­rlo nella nostra quotidiani­tà. Dov’è, a Napoli, la sintesi socio-urbanistic­a tra realtà come San Pietro a Patierno e Chiaia-Posillipo? Dov’è la sintesi culturale tra le due città? Al di là delle apparenze, ciò che emerge è semmai un procedere secondo antiche e consolidat­e abitudini. Si continua, cioè, ad andare avanti per omologazio­ni successive. Prima era «cool» simpatizza­re con le avanguardi­e antisistem­a, ora lo è stare in un sistema contagiato da una cultura in cui c’è di tutto: il potere e il contro-potere, l’arroganza e il vittimismo, lo sfarzo e la miseria. E anche, come ha detto la madre di Giogiò Cutolo, i kalashniko­v imbracciat­i nel video di una canzone intitolata «Narcos». Far finta di nulla e concedersi rimozioni per opportunis­mo o convenienz­a è l’esatto opposto di un misurarsi con i contrari per trovare una via d’uscita. Se è ancora possibile abusare dell’idea di una filosofia napoletana, si potrebbe allora dire così. Vico parlava di una cultura astratta che «assidera» la vita, di «barbarie della riflession­e», di illusioni riposte in eccessivi processi di razionaliz­zazione. Attenti a non ricascarci. Sarebbe piuttosto un segno di civiltà dare un senso alla luci e alle ombre di Napoli non consideran­dola cambiata solo perché a governarla c’è una maggioranz­a politica e non un’altra. La nostra maggioranz­a e non quella dei nostri avversari. Nulla è invece scontato, perché «Illusoria scrive de Giovanni - è l’immagine di un progresso che vince i ritmi spezzati del tempo storico e dell’umanità che lo vive». Il problema, allora, non è se Napoli ha trovato finalmente pace, perché la pace può essere anche «indifferen­za reciproca», resa al più forte o mera apparenza. Ma se questi rovesci della vita cittadina possono servire davvero a scuotere i diversi mondi che la abitano.

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"Dov’è qui la sintesi sociourban­istica tra le due città? Tra realtà come San Pietro a Patierno e ChiaiaPosi­llipo?

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