Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Marco Pantani rinasce grazie a Marco Ciriello
«Alto sui pedali» è il libro dello scrittore partenopeo, che narra della vita del ciclista all’inverso
Per Dino Buzzati la bicicletta era una fiaba che non tramonterà mai. Eppure il ciclismo negli ultimi anni del Novecento ha oltrepassato l’idilliaco, regalandoci una storia capace di superare a destra le favole per farsi un giro, tanto epico e inebriante quanto a volte drammatico, sulle montagne russe della vita. Una corsa da un solo gettone, come quello magico consumato da Marco Pantani nel 1998. L’anno d’oro del campione romagnolo - di cui ieri ricorreva il ventennale dalla scomparsa - è stato il battito di una parabola sportiva dagli assi cartesiani capovolti, con le salite innevate in lontananza che attraverso i fori dei pedali diventavano oasi, costellata di gloriose vittorie e improvvise cadute, trionfi epocali e tonfi assordanti.
In «Marco Pantani. Alto sui pedali. Una vita alla rovescia», edito da Sperling & Kupfer, lo scrittore napoletano Marco Ciriello inverte il tempo vissuto dal ciclista, iniziando quindi il suo racconto dalla fine, ovvero dalle ombre dell’atleta e dalla morte dell’uomo, per accendere un’ampissima gamma di luci sulle vicende di un campione diverso dagli altri, in quanto espressione inconscia di una galassia sociale che nella seconda metà degli anni ’90 era già in rotta di collisione con il futuro. Gli occhi asiatici di Pantani portano Ciriello a definirlo come un «re mongolo». Il ciclista romagnolo, in quanto mito, rifugge infatti dalle lancette dell’orologio. Motivo per cui incalza la necessità di una «storia al contrario» capace di restituire le vibrazioni di un’esistenza altrettanto ribaltata. Ciriello stringe tra le dita il cuore pulsante di un ciclismo etrusco, per dirla con Montanelli, dove i pedali fieri e i corpi stremati esprimono grazia e riflettono il sogno accarezzato a un metro dalle saracinesche abbassate di un’Italia che purtroppo non c’è più. È uno stivale «cucito» con il sangue e il sacrificio di invisibili gregari, i cosiddetti Oriali
di Luciano Ligabue, che nel dopoguerra incarnarono lo spirito di un’intera classe sociale. Di quel meraviglioso mare magnum che univa gli umori di calzolai valtellinesi e pescatori napoletani, Pantani è stato l’ultimo dei pirati.
Il Pantadattilo, come amava chiamarlo Gianni Mura, ha espresso per un piccolo ma significativo lasso di tempo lo spirito di un atleta che si consuma senza mai girarsi indietro. Nei trentaquattro movimenti del libro, Ciriello pedala con il campione e come lui lavora sui tornanti, infila le curve, gioca d’anticipo, scatta per descrivere tormenti, istinti, amori, visioni e salti di catena. Non mancano poi l’impeto che alimenta l’assedio e la maturità provvisoria che è cifra dell’animo gentile di Pantani.
E tra una storia e l’altra spunta anche l’americano, Lance «Robocop» Armstrong, che commuove il mondo prima di imbrogliarlo per sempre. Ma se per Ciriello il ciclista texano è Daredevil, Pantani rimane un ciclotauro, come quello disegnato da Dario Fo nel suo dipinto in omaggio al campione. Un ciclista per metà toro, eternamente mito, che svetta ancora una volta irraggiungibile tra le pagine di questo libro.