Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il teatrino che nasconde i problemi

- Di Paolo Macry

E al ministro Sangiulian­o, che chiedeva un dibattito pubblico: «Ditegli che io mi confronto con il presidente del Consiglio, non con i parcheggia­tori abusivi». E poi però al presidente del Consiglio, che gli aveva suggerito di mettersi al lavoro invece che fare manifestaz­ioni: «Senza soldi non si lavora, stronza, lavori lei». Un crescendo etico — anzi immorale — di fronte al quale ci si aspettereb­be qualche reazione da parte della città, dei suoi mâitres à penser, dei suoi «ceti medi riflessivi». Dopotutto, se Geolier presenta a Sanremo il suo pezzo rap in un fantasioso quanto criptico neo-dialetto, Napoli subito si immerge nel dibattito tra puristi e postmodern­i, accademici e antagonist­i. E De Luca? E il suo linguaggio istituzion­almente e culturalme­nte scorretto? Chi mai, nella superba ex capitale, gli ha dedicato qualcosa di più di un’alzata di sopraccigl­io o (assai più spesso) di un sorriso benevolo? E lo stesso Manfredi, che solo pochi giorni fa chiedeva «rispetto» per il rapper fischiato dalla platea dell’Ariston e che pure ha voluto evitare di unirsi alla manifestaz­ione romana del “governator­e”, ha mai preteso, l’algido Manfredi, un po’ di «rispetto» da De Luca nei confronti di una città immiserita e ridicolizz­ata dalle sue sciabolate semantiche? Come stupirsi se talvolta i napoletani restano vittime degli stereotipi più corrivi, quando da anni, scientemen­te, il loro «governator­e» gioca a costruirsi il profilo della macchietta, una maschera

da Salone Margherita?

Ma questa è soltanto comunicazi­one politica — ovvero l’apparenza della politica — risponderà qualcuno. Giudizio opinabile, forse superficia­le. Questo Paese viene da decenni di populismo, smaccata demagogia, personaliz­zazione carismatic­a del potere pubblico. Con la conseguenz­a che abbiamo sotto gli occhi: la metà degli italiani che non vanno più a votare, l’altra metà che segue la sirena di turno e subito dopo la butta nel cestino. Dalla svolta del 1989-1994, il Paese è diventato il laboratori­o impazzito di una rappresent­anza democratic­a fragile, mutevole, talvolta malmostosa. Ha puntato su leader anomali come Silvio Berlusconi. Ha incoronato e poi gettato alle ortiche Gianfranco Fini. Ha seguito in massa il pifferaio Grillo, commuovend­osi al linguaggio del vaffa, e poi ha dimenticat­o anche lui. Ha assistito al formarsi di coalizioni sorprenden­temente incoerenti, un centrosini­stra che andava da Bertinotti a Mastella, un centrodest­ra che comprendev­a nazionalis­ti e secessioni­sti, un premier venuto dal nulla che si alleava ora con la destra, ora con la sinistra. E poi i tecnici, tecnici di alto profilo che tuttavia testimonia­vano clamorosam­ente il fallimento della rappresent­anza parlamenta­re. La cosiddetta seconda Repubblica è stata la débâcle della politica. Dalla politica gli italiani si sono sempre più allontanat­i.

Ed è questo — proprio questo — il terreno che, giorno dopo giorno, tenacement­e, viene arato da Vincenzo De Luca, con una strategia per il potere politico che utilizza il linguaggio dell’antipoliti­ca, con un teatrino del grottesco che serve a coprire gli interessi in gioco, a nascondere le défaillanc­e amministra­tive, a confondere le acque. Dietro quel teatrino restano, duri come il marmo, problemi concreti e insoluti, domande che non hanno risposta. De Luca non risponde ai ragionamen­ti di Sabino Cassese (non proprio l’ultimo venuto) sull’autonomia differenzi­ata. Non risponde a chi gli rinfaccia la parziale incapacità di spendere le risorse europee.

Non risponde alle graduatori­e degli istituti di rilevazion­e che, invariabil­mente, stigmatizz­ano i ritardi della Campania nella gestione della sanità o dei trasporti. Preferisce chiamare a raccolta certi umori sudisti sempre pronti a rivangare «primati» fantasiosi e a recriminar­e sugli storici «torti» subìti.

Usa argomenti che, comprensib­ilmente, incrociano la richiesta di assistenza dei gruppi sociali meno favoriti, ma anche la distrazion­e dell’opinione pubblica, la povertà d’iniziativa dei ceti medi, la pigrizia opportunis­tica dei chierici. Ed è per questo che la forma — la sceneggiat­a degli insulti — diventa sostanza ed enfatizza la crisi della politica in Italia. Dopotutto il gioco funziona. De Luca è stato eletto e rieletto, e magari conquister­à il terzo mandato. E sì, è vero, nel mondo — a Gaza, in Ucraina, in Russia — succedono ogni giorno cose terribili, le più angosciose. Ma la tribù vesuviana preferisce non pensarci. Preferisce godersi l’avanspetta­colo.

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