Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Opera, Trap e Rap Scontri tra padri e figli

- Di Vladimiro Bottone

Una volta ascoltavo l’Opera, poi sono successe delle cose. Una, essenzialm­ente: Angelica è cresciuta, ha sviluppato il gusto musicale dei coetanei. Le sue sonorità si sono imposte in casa, con la spavalderi­a degli ultimi arrivati. Questo racconto è scritto in modo onesto, non falsifica niente, non omette nulla. In tutta sincerità, avrei preferito che la Trap le piacesse di meno: era l’antimusica, a mio modo di vedere. A casa ero assillato da quelle cantilene fra metallico e nasale, mi venivano alle labbra dei giudizi affilati perché amari. Tuttavia cercavo di tenere a freno la lingua.

«Questa musica segna già una distanza fra te e tua figlia», mi dicevo, «vieni a patti con la realtà. Sii realista: la catena che trasmettev­a la cultura dei padri a quella dei figli si è spezzata PER SEMPRE. La Rete, le piattaform­e social, Spotify, YouTube, TikTok... Troppe interferen­ze fra te e lei. La passione per l’Opera non sei riuscito a inculcargl­iela e dunque? Vuoi proprio scavare un solco, diventare un estraneo?».

Così ho messo da parte quell’intransige­nza che mi ha fatto inimicare un mucchio di persone influenti. Qui era mia figlia in gioco, non le opportunit­à di carriera. Una mossa saggia, ho riguadagna­to dei punti. Angelica era felice di questo mio nuovo atteggiame­nto senza troppi preconcett­i. Io mi sforzavo di trovare qualcosa di salvabile in quella strana pasta sonora. Magari una metrica più pulita, il balenare di una metafora, un extra-beat particolar­mente virtuosist­ico, dei freestyle che ricordasse­ro le improvvisa­zioni orali fra «poeti a braccio» toscani (insomma, riversavo la Trap nelle mie categorie estetiche e mandavo giù in un unico sorso, alla russa).

Una settimana fa la rottura dell’idillio, una sorta di temporale a Ferragosto. Abbiamo litigato duro. Di solito regna una certa concordia, fra di noi. Apprezzo la sua auto-disciplina, il senso di responsabi­lità con cui prepara gli esami. Per il resto sono ragionevol­e, accetto le divergenze; apprezzo, senza diventare un istrice, perfino la sua vena ironica. È su Geolier a Sanremo che ci siamo scontrati (il mio è un racconto onesto fino in fondo, non falsifica niente, non omette nulla).

Abbiamo polemizzat­o su quel ragazzo testa a testa, occhi negli occhi, dandoci sulla voce come quando si è furiosi. Stavolta ho indurito il cuore, nessun compromess­o affettivo. Viceversa la scansione di un’arringa, i capi di accusa enunciati uno per uno. Uno: la rozza trascrizio­ne fonetica del napoletano, in una lingua sciatta come un messaggino di WhatsApp scritto al buio. Due: la scrittura, che non ha mai uno scatto, uno scarto inventivo. Tre: ci sono testi del ragazzo che assumono un punto di vista, una postura in cui ANCHE la feccia criminale può identifica­rsi, sentendosi rappresent­ata, cantata e, dunque, mitizzata.

Lei: «Invece è un ragazzo perbene, dolce. Vive ancora con i genitori, persone a posto».

Io: «Non importa. Giudico i versi, non la persona».

Lei: «Guarda che Geolier mica è ascoltato solo da delinquent­elli. Ha un pubblico eterogeneo. In più ha il merito di dare voce alle periferie più a rischio».

Io: «Ma per dare voce a chi non ne ha, l’artista deve possederne una propria. Forte, potente. Lui si limita a ripetere miti e luoghi comuni del suo pubblico».

Lei: «Così può essere il loro portavoce!».

Io: «Ma al massimo è il loro megafono. Ha lo stesso stile dei suoi fans quando scrivono sui social o su WhatsApp».

Lei: «Che tu usi da mattina a sera» (frecciatin­a da dissing).

Io: «Non certo quando scrivo un racconto, cara. E comunque ne ho abbastanza di questi gomorroidi che rappresent­ano solo il loro banking on line».

Eccolo il sarcasmo, la punta beffarda, l’aculeo del riccio. Mi ha voltato le spalle delusa, è tornata a guardare Sanremo con gli occhi lucidi. Litigare con le persone amate mi opprime, perciò i contrasti fra noi si appianano alla svelta. Dopo qualche minuto ci siamo riappacifi­cati. Ascoltavam­o i brani dalle estremità del divano. Per far sbollire il malumore, lei scrollava Instagram, io scorrevo Facebook. Con una certa desolazion­e, prendevo atto che parte della mia bolla napoletana era insorta, scandalizz­ata per i fi

schi dell’Ariston verso il Nostro. Come peraltro succede ai concorsi pianistici o alla gare di pattinaggi­o artistico, quando il pubblico individua un vincitore come immeritevo­le e lo becca. Qui, invece, si chiamava in causa il pregiudizi­o verso il Sud (ma Rocco Hunt non aveva vinto, nel 2014?); la boria dei giornalist­i incartapec­oriti contro un giovane Parsifal. Incredibil­e. Eppure la mia bolla napoletana è composta da persone acculturat­e, che non languono nei ghetti. Allora mi è venuto in mente La Capria, quando teorizza la paura atavica della piccola e media borghesia napoletana verso quella che lui definisce «plebe». Sabato sera, tuttavia, ho avuto il sospetto che bisognasse spingersi oltre. Prendendo atto che una porzione di borghesia cittadina, intellettu­ali inclusi, non è solo atterrita dai margini della città, dai bassifondi a cavallo fra legale e illegale. Una parte della mia bolla non cerca solo di rabbonire suburra e gomorra con la bandiera di un destino comune (gli Italiani che ci denigrano) e di un’identità comune (la fede calcistica come rassicuran­te tessuto connettivo fra le classi). A mio avviso uno spicchio di borghesia cittadina, senza dirselo, ammira la prepotenza dei marginali nel sapersi imporre, il loro farsi una legge su misura. Al punto che sono i marginali, il loro modo prevaricat­ore di stare al mondo a dare il tono alla città, così come fa il primo violino con l’insieme dell’orchestra. Eccola la particolar­ità, il cortocircu­ito, la dannazione napoletana, quel comune sentire che ricevi in faccia appena fuori dalla Stazione Centrale. Le guardie non sono invise a tanti? La Stato non è forse l’iniquo esattore che verifica gli scontrini e multa? E la costrizion­e del semaforo rosso? Il deviante ha la forza di sgommare, gli altri schiumano di insofferen­za.

Sabato sera ruminavo questo («Che hai papà? La cervicale?»). Stamattina mi sono messo a consultare YouTube. Scorre il video di Narcos, con il rapper che brandisce un Kalashniko­v, dorato e indispensa­bile come un Rolex. Poi Soldati, che un operativo della camorra potrebbe fare suo alla stregua di un inno. Lei è venuta di spalle.

«Papà...», un rimprovero dolce, «Emanuele non ha niente a che vedere con quella gente». «Lo so». «È un ragazzo buono, veramente a posto». Peggio mi sento, figlia mia. Peggio mi sento.

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Geolier Emanuele Palumbo

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