Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Opera, Trap e Rap Scontri tra padri e figli
Una volta ascoltavo l’Opera, poi sono successe delle cose. Una, essenzialmente: Angelica è cresciuta, ha sviluppato il gusto musicale dei coetanei. Le sue sonorità si sono imposte in casa, con la spavalderia degli ultimi arrivati. Questo racconto è scritto in modo onesto, non falsifica niente, non omette nulla. In tutta sincerità, avrei preferito che la Trap le piacesse di meno: era l’antimusica, a mio modo di vedere. A casa ero assillato da quelle cantilene fra metallico e nasale, mi venivano alle labbra dei giudizi affilati perché amari. Tuttavia cercavo di tenere a freno la lingua.
«Questa musica segna già una distanza fra te e tua figlia», mi dicevo, «vieni a patti con la realtà. Sii realista: la catena che trasmetteva la cultura dei padri a quella dei figli si è spezzata PER SEMPRE. La Rete, le piattaforme social, Spotify, YouTube, TikTok... Troppe interferenze fra te e lei. La passione per l’Opera non sei riuscito a inculcargliela e dunque? Vuoi proprio scavare un solco, diventare un estraneo?».
Così ho messo da parte quell’intransigenza che mi ha fatto inimicare un mucchio di persone influenti. Qui era mia figlia in gioco, non le opportunità di carriera. Una mossa saggia, ho riguadagnato dei punti. Angelica era felice di questo mio nuovo atteggiamento senza troppi preconcetti. Io mi sforzavo di trovare qualcosa di salvabile in quella strana pasta sonora. Magari una metrica più pulita, il balenare di una metafora, un extra-beat particolarmente virtuosistico, dei freestyle che ricordassero le improvvisazioni orali fra «poeti a braccio» toscani (insomma, riversavo la Trap nelle mie categorie estetiche e mandavo giù in un unico sorso, alla russa).
Una settimana fa la rottura dell’idillio, una sorta di temporale a Ferragosto. Abbiamo litigato duro. Di solito regna una certa concordia, fra di noi. Apprezzo la sua auto-disciplina, il senso di responsabilità con cui prepara gli esami. Per il resto sono ragionevole, accetto le divergenze; apprezzo, senza diventare un istrice, perfino la sua vena ironica. È su Geolier a Sanremo che ci siamo scontrati (il mio è un racconto onesto fino in fondo, non falsifica niente, non omette nulla).
Abbiamo polemizzato su quel ragazzo testa a testa, occhi negli occhi, dandoci sulla voce come quando si è furiosi. Stavolta ho indurito il cuore, nessun compromesso affettivo. Viceversa la scansione di un’arringa, i capi di accusa enunciati uno per uno. Uno: la rozza trascrizione fonetica del napoletano, in una lingua sciatta come un messaggino di WhatsApp scritto al buio. Due: la scrittura, che non ha mai uno scatto, uno scarto inventivo. Tre: ci sono testi del ragazzo che assumono un punto di vista, una postura in cui ANCHE la feccia criminale può identificarsi, sentendosi rappresentata, cantata e, dunque, mitizzata.
Lei: «Invece è un ragazzo perbene, dolce. Vive ancora con i genitori, persone a posto».
Io: «Non importa. Giudico i versi, non la persona».
Lei: «Guarda che Geolier mica è ascoltato solo da delinquentelli. Ha un pubblico eterogeneo. In più ha il merito di dare voce alle periferie più a rischio».
Io: «Ma per dare voce a chi non ne ha, l’artista deve possederne una propria. Forte, potente. Lui si limita a ripetere miti e luoghi comuni del suo pubblico».
Lei: «Così può essere il loro portavoce!».
Io: «Ma al massimo è il loro megafono. Ha lo stesso stile dei suoi fans quando scrivono sui social o su WhatsApp».
Lei: «Che tu usi da mattina a sera» (frecciatina da dissing).
Io: «Non certo quando scrivo un racconto, cara. E comunque ne ho abbastanza di questi gomorroidi che rappresentano solo il loro banking on line».
Eccolo il sarcasmo, la punta beffarda, l’aculeo del riccio. Mi ha voltato le spalle delusa, è tornata a guardare Sanremo con gli occhi lucidi. Litigare con le persone amate mi opprime, perciò i contrasti fra noi si appianano alla svelta. Dopo qualche minuto ci siamo riappacificati. Ascoltavamo i brani dalle estremità del divano. Per far sbollire il malumore, lei scrollava Instagram, io scorrevo Facebook. Con una certa desolazione, prendevo atto che parte della mia bolla napoletana era insorta, scandalizzata per i fi
schi dell’Ariston verso il Nostro. Come peraltro succede ai concorsi pianistici o alla gare di pattinaggio artistico, quando il pubblico individua un vincitore come immeritevole e lo becca. Qui, invece, si chiamava in causa il pregiudizio verso il Sud (ma Rocco Hunt non aveva vinto, nel 2014?); la boria dei giornalisti incartapecoriti contro un giovane Parsifal. Incredibile. Eppure la mia bolla napoletana è composta da persone acculturate, che non languono nei ghetti. Allora mi è venuto in mente La Capria, quando teorizza la paura atavica della piccola e media borghesia napoletana verso quella che lui definisce «plebe». Sabato sera, tuttavia, ho avuto il sospetto che bisognasse spingersi oltre. Prendendo atto che una porzione di borghesia cittadina, intellettuali inclusi, non è solo atterrita dai margini della città, dai bassifondi a cavallo fra legale e illegale. Una parte della mia bolla non cerca solo di rabbonire suburra e gomorra con la bandiera di un destino comune (gli Italiani che ci denigrano) e di un’identità comune (la fede calcistica come rassicurante tessuto connettivo fra le classi). A mio avviso uno spicchio di borghesia cittadina, senza dirselo, ammira la prepotenza dei marginali nel sapersi imporre, il loro farsi una legge su misura. Al punto che sono i marginali, il loro modo prevaricatore di stare al mondo a dare il tono alla città, così come fa il primo violino con l’insieme dell’orchestra. Eccola la particolarità, il cortocircuito, la dannazione napoletana, quel comune sentire che ricevi in faccia appena fuori dalla Stazione Centrale. Le guardie non sono invise a tanti? La Stato non è forse l’iniquo esattore che verifica gli scontrini e multa? E la costrizione del semaforo rosso? Il deviante ha la forza di sgommare, gli altri schiumano di insofferenza.
Sabato sera ruminavo questo («Che hai papà? La cervicale?»). Stamattina mi sono messo a consultare YouTube. Scorre il video di Narcos, con il rapper che brandisce un Kalashnikov, dorato e indispensabile come un Rolex. Poi Soldati, che un operativo della camorra potrebbe fare suo alla stregua di un inno. Lei è venuta di spalle.
«Papà...», un rimprovero dolce, «Emanuele non ha niente a che vedere con quella gente». «Lo so». «È un ragazzo buono, veramente a posto». Peggio mi sento, figlia mia. Peggio mi sento.
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