Corriere del Mezzogiorno (Campania)
ADL E DE LUCA IL SEGNO DEL COMANDO
Un modello aziendale snello eppure efficace, in cui certamente incombeva la presenza del datore di lavoro ma in maniera meno bulimica di quanto appaia oggi. Una parvenza di separazione di poteri, cara a Montesquieu, in qualche modo reggeva. Più che in De Luca. De Laurentiis ha quasi sempre fatto tutto lui, è vero. Nessuno ha mai avuto potere di firma nel Napoli oltre a lui, è vero. Da Higuain fino all’acqua minerale. È così che De Laurentiis ancora comincia le sue giornate, all’alba. Curando in prima persona i pagamenti delle sue aziende. «È l’unico modo per conoscere davvero le tue imprese», spiega. «Così mi ha insegnato mio padre». Però un abbozzo di esercizio della delega c’era. Che poi è cresciuto quando ad esempio è aumentato il peso specifico di qualche suo collaboratore come ad esempio Giuntoli.
È vero che anche in passato è stato protagonista di clamorose ingerenze tecniche, o meglio fisiche nello spogliatoio. Si ricorda una quasi scazzottata con Edy Reja tanti anni fa. Ma in genere gli allenatori a Napoli godevano di pressoché totale autonomia. Un po’ perché a lui il calcio in senso tecnico-tattico non è mai realmente interessato. Un po’ perché prima del Covid De Laurentiis conduceva una parallela vita cinematografica che gli sottraeva tempo tra lettura delle sceneggiature, riprese, lancio del prodotto. La doppia vita Napoli-RomaLos Angeles consentiva di vivere lunghi periodi sereni in quel di Castel Volturno. È stato con la vittoria dello scudetto che sono saltati definitivamente gli argini. Ed è cambiato il modello di gestione. L’idea di condividere i meriti della vittoria con qualcun altro (nella fattispecie Spalletti e Giuntoli) è stata per lui insopportabile. E ha reso la sua presenza decisamente più invasiva. Totalizzante. Il Napoli è diventato al tempo stesso il suo giocattolo e la sua ossessione. Ancor prima che la sua impresa. È questo un passaggio interessante e per certi versi impensabile conoscendo l’attenzione al denaro che proverbialmente lo contraddistingue. L’egolatria e la politica da «uomo solo al comando» hanno finito col danneggiare la sua azienda. Col creargli un danno economico. Oggi, dieci mesi dopo la conquista dello scudetto, non c’è calciatore del Napoli che non abbia perso valore. Per non parlare del brand visto che in pochissimo tempo si è passati dalle interviste ai principali quotidiani internazionali, ai sorrisini e alle battutine persino fastidiose nelle trasmissioni tv nazionali. Senza dimenticare che la mancata qualificazione Champions (oggi quantomeno probabile) sottrarrebbe alle casse del Napoli una sessantina di milioni di euro. Cui andrebbe aggiunta una cifra almeno pari per la mancata partecipazione al Mondiale per club. Sono i costi del «faso tuto mi». Un modello di gestione non solo autoriferito ma soprattutto autolesionistico. Ed è quasi paradossale che mentre la società a egolatria illimitata presenta il conto del terzo allenatore in otto mesi (sesto se consideriamo anche Bari), a Napoli chi si è ispirato al vecchio modello De Laurentiis ne raccoglie i frutti e torna alla vittoria. È il caso del basket che con una gestione oculata e costi decisamente inferiori alla Armani Milano, ha vinto la Coppa Italia. Mentre il signor Aurelio, sull’orlo del burrone, prova l’ultima carta, quella di Calzona. Una scelta disperata ma con una logica. Ancora una volta ispirata al passato. Come, del resto, sta facendo De Luca. Come spesso capita a chi ha superato una certa età.