Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Taiuti: il mio format teatrale si ispira al jazz L’attore in scena al Ridotto del Mercadante con il suo «Play Viviani»
Recitare, suonare, in fondo giocare. Nel titolo «Play» che Tonino Taiuti antepone a tutti i suoi ultimi spettacoli, c’è il senso più profondo del poliedrico termine inglese, che stavolta si accoppia all’autore più musicale del teatro napoletano del ‘900. E «Play Viviani» è lo spettacolo che l’attore partenopeo porta in scena da stasera alle 21 e fino al 3 marzo al Ridotto del Mercadante.
«Play duett» 1, 2 e 3, poi «Play Moscato», ora Viviani. Si tratta di un vero e proprio format?
«Possiamo definirlo anche così. Tutto ebbe inizio con un Pulcinella che interpretavo in un confronto con le guarrattelle di Bruno Leone, poi è venuto il
“duett” con Lino Musella ed eccoci oggi a Viviani. E chissà un domani anche a Eduardo. È un termine che riprendo dal jazz, penso al Paul Motian di “Play Monk & Powell”, e che esprime perfettamente la mia idea di teatro attuale, un “pastiche” di brani di uno o più autori, miscelato con la musica loro e soprattutto mia, quella che improvviso in scena alla chitarra elettrica, rifacendomi alla Noise o all’Ambient, di Scott Walker, i Coil o Norman Westberg. Una dimensione espressiva che contamina il presente con la tradizione, specie se parliamo di personaggi come Viviani, al quale finisco sempre per ritornare, un vero e proprio cordone ombelicale».
Un autore fortemente musicale Viviani, questo l’ha aiutata?
«Sì, ma non tanto per le sue canzoni, che appena accenno, per esempio “Emigrante” o “’O Tammuraro”, ma per il suono della sua lingua, che io recupero da stralci della “Piedigrotta”, “I 10 comandamenti” o “Circo equestre Sgueglia. Ma attenzione non è un reading con leggìo, ma un continuo rimestare in quel repertorio che torna fuori come un flusso circolare che evoca personaggi morti, ma presenti come sculture che si animano».
Teatro e musica nella sua vita. E il cinema?
«Non ho avuto un gran rapporto con il grande schermo. Forse perché non ho mai avuto un agente che mi proponesse in giro ai vari registi, e anche quelli che conoscevo bene per precedenti esperienze teatrali, è come se mi avessero considerato solo nella dimensione scenica live. Comunque ho avuto alcune esperienze importanti. Per esempio con Antonio Capuano, con cui ho girato “Polvere di Napoli”, ideando anche 3 delle 5 storie, che poi mi ha sceneggiato proprio Paolo Sorrentino. E ancora Salvatores con “Sud” o più recentemente Roberto Andò con “Il bambino nascosto”».
In tutti questi film c’era Silvio Orlando, con cui ha iniziato, ma che poi ha lasciato Napoli. Rimpianti per non aver fatto lo stesso?
«No, assolutamente. Con Silvio eravamo una formidabile coppia comica, era l’inizio degli anni ’80 e ricordo spettacoli come l’esilarante “Due uomini e un armadio” o “Ragazze sole con qualche esperienza” scritto per noi e Ruccello da Enzo Moscato. Ho provato anche io a “emigrare”, ma avevo troppo bisogno della mia città. Quella di un tempo però, che ancora oggi, camminando, provo a immaginare ricordando i volti degli artisti che non ci sono più».