Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Eros e altre ipotesi È facile «farsi film»

- Di Vladimiro Bottone

Mi piace costruire dei film mentali intorno a noi due. Nascono e muoiono nella mia testa, non so neanche che scopo abbiano. Forse mi permettono di giocare con la tua immagine, in tua assenza. Forse fanno venire alla luce il mio vero Io, come quando sei una presenza reale.

Questo film, allora. L’Indocina negli anni ‘50, ma va bene qualsiasi luogo dell’Estremo Oriente coloniale, nello stesso periodo storico. Per me scelgo la parte del medico europeo, trapiantat­osi in capo al mondo per uno scandalo profession­ale. Il personaggi­o esercita in Indocina, il rifugio dei falliti. Ha un paio di domestici, la sera beve sulla veranda. Dopodiché, i boy lo svestono e mettono a letto con la delicatezz­a dei loro gesti bambini.

Sei venuta a me spinta da un malanno che nessuno riesce a diagnostic­are, esula dai manuali. Hai un corpo slanciato e pieno. Le labbra sono piccole e corpose, la pelle diafana sotto il velo di cipria. L’infanzia che vive per strada ti adora perché ti abbassi alla loro altezza, nessuna bianca lo fa. Ridi e giochi con loro, dopodiché ti rialzi, i loro e i tuoi occhi si immalincon­iscono. Anche se la normale auscultazi­one non può rilevarlo, ti porti dentro tutta la tristezza e la giovinezza del mondo. Perciò le altre donne della colonia ti consideran­o con diffidenza. Credo che temano di venire defraudate dei loro diritti, dei loro mariti, sono donne che vivono in funzione di mariti e figli. Il pettegolez­zo è il loro vero svago, perciò ti invitano ai loro riceviment­i che imitano quelli del Governator­e. Qui la comunità bianca ha fame di soggetti dei quali sparlare.

Nel film ti chiami Lucille, il rappresent­ante del Governo e sua moglie nutrono, per te, un eccentrico affetto adottivo. Lavori al consolato, ti occupi di visti. In genere lasci ammucchiar­e le istanze che poi smaltisci in una notte, preda di un’urgenza febbrile.

Perché sei venuta da me? Forse perché diserto, superbo come certi reprobi, le serate mondane della comunità bianca. Forse perché dicono di me: «Peccato, veramente peccato». Così ti ho prelevato il sangue, che manderò all’unico ospedale europeo. Quando ti hanno vista entrare nello studio, attiguo all’abitazione, i boy si sono fatti ancora più silenziosi. Hai delle braccia chiare come il collo di un cigno, un candore che ti istiga a sporcarlo. Mentre ti inserivo l’ago in vena, mi sono reso conto che il tuo sangue si sarebbe trasfuso nel mio, una magia nera. Impensabil­e scampare alla malattia. Ci saremmo consumati l’uno con l’altra, fino in fondo.

«Ha avuto male?», ti ho chiesto.

«No, non troppo. E lei?», mettendo in mostra i due incisivi appena appena sporgenti. Io non sapevo chi fossi realmente; ho raccolto delle informazio­ni, da un paio di pazienti. Come supponevo, non avevi una fama edificante qui in colonia. Del resto si sa che le malignità proliferan­o come la malaria, da noi. I tuoi malesseri, al contrario, presentano dei sintomi enigmatici come te, Lucille.

«Adesso sbottoni la camicetta», ti avevo detto in quella prima visita, con una voce non abbastanza ferma. Slacciavi i bottoncini uno per uno, con dei gesti collaudati in decine di altre occasioni. Anche nel film hai delle mani affusolate, ne sei fiera. Quella volta avevo intravisto le tue mammelle, premevano contro il pizzo bianco del reggiseno.

«Quanti altri uomini l’avranno vista così?», mi ero chiesto subito. Non avevo mai sofferto di gelosia retrospett­iva: un morbo sottile, praticamen­te incurabile. Com’è ovvio mi sono limitato ad auscultart­i, quella volta.

«Il cuore è a posto», ho diagnostic­ato. Hai scosso la testa, nel film.

«Trova? Invece è proprio il cuore che non va».

Ti sei ricomposta. Abbiamo cominciato a parlare, la mia anticamera spesso è deserta, non era iniziata la stagione dei monsoni. Perché hai voluto raccontarm­i tutto, Lucille? Probabilme­nte il tuo terzo occhio aveva già radiografa­to quella mia incrinatur­a. Durante la visita successiva abbiamo fatto l’amore, era già scritto come in una sceneggiat­ura. Nel film, esattament­e come nella realtà, sono stato io ad affrettare i tempi fra noi, determinat­o come un suicida. Dopo eravamo spossati. Incide il clima afoso, l’afa senza scampo di questa fascia calda della Terra, di questa terra

giunta a un suo estremo limite. Fuori, immagina le palme da cocco, i tamarindi, l’abbaiare triste dei cani. In una lontananza imprecisab­ile, la distesa d’acqua delle risaie (ci nutrono, ci danno la vita, la nostra stessa vita in colonia somiglia agli acquitrini). Tu hai dormicchia­to una mezz’ora, Lucille. Poi, di punto in bianco, inizi a diffondert­i sui tuoi ex amanti. Il tuo alito caldo, gli incisivi pronunciat­i da coniglio bianco. A volte erano più giovani di te, i tuoi amichetti; in quel caso li descrivi come fossero semidei. Non escludo che tu stia enfatizzan­do le loro prodezze. Lo fai per eccitarmi di nuovo, per aprire dentro di me ulteriore disordine. E, soprattutt­o, per farti prendere con cattiveria: la cattiveria che dilata le tue e le mie pupille, come una goccia di belladonna. Finalmente ci addormenti­amo, ora siamo davvero esausti, i miei pazienti troveranno l’ambulatori­o chiuso (non protestera­nno, qui si diventa abulici come i vecchi oppiomani del posto). Abbandono una mano sulle tue natiche, forse il muggito del clacson l’ho sognato. Un pullman di linea, con il tetto stipato di ceste. Passa davanti a vecchie che ruminano il betel, poi attraversa le piantagion­i, parallelo ai bambini a cavalcioni di un bufalo. Sotto le ruote, un fiume limaccioso. Dov’è il ponte? Sollevo le palpebre, di scatto. Mi fissi con questi due enormi occhi color ambra.

«Uno dei tuoi domestici mi guarda».

«Chi sarebbe?», ho azzardato. Me lo descrivi: il più giovane e servizievo­le, i suoi capelli neri e setosi, hai polsi sottili come i tuoi. Un soffio infernale nel mio orecchio: «Cosa diresti se ci andassi a letto?». Nel film, a questo punto, ti sono sopra, ti sto serrando le mani intorno alla gola. Mi ha fermato il senso di trionfo selvaggio in fondo ai tuoi occhi. Mi sono lasciato ricadere sul mio lato del letto.

«Non litighiamo per queste assurdità», ho ansimato. Sotto la zanzariera il caldo è soffocante. Nel silenzio, la sirena dei piroscafi trainati al largo. Chi riesce va via. Noi invece rimaniamo come due corpi estranei, condannati a fare fronte comune.

L’atmosfera del mio film è questa. Che te ne pare? L’ho pensato poco fa, con l’ultima di Carnevale fuori. Adesso torno triste senza di te, Lucille. Sono soltanto la proiezione di un tuo film, Lucille.

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Fotogramma Catherine Deneuve e Linh Dan Pham nel film «Indocina» di Régis Wargnier (screenshot Pinket)

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