Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Lezione sarda
D’accordo, mettiamo pure che la manovra vada in porto (cosa peraltro molto difficile), resta insoluto il quesito principale: chi mai candiderebbe De Luca alla guida delle sue truppe? Il centrosinistra? Finché c’è Schlein, nemmeno se ne parla. E Schlein, a meno d’una irrealistica catastrofe alle Europee, alla fine del 2025 ci sarà. Ergo, il presidente campano dovrebbe correre senza bandiere di partito. Ipotesi più che probabile. Tuttavia le elezioni sarde hanno mostrato la sostanziale insussistenza
dei cavalieri solitari: il «fattore Soru», uscito sbriciolato dalle urne, ha convinto perfino un irriducibile «terzista» come Carlo Calenda ad abbandonare questa strategia nelle consultazioni amministrative. Ovvio, De Luca non è Soru: viene da dieci anni di governo durante i quali ha saputo costruire il consenso distribuendo prebende e incarichi in ogni settore, dalla sanità alla cultura. Soltanto in questo modo è riuscito a mascherare i risultati fallimentari della sua gestione. Insomma, a farla breve, è uno che può contare su un largo bacino di voti. Ma largo quanto? Il venti per cento? Il venticinque? Non bisogna essere un fine matematico per comprendere che, con percentuali del genere, andrebbe incontro a una sicura sconfitta. Tanto più se Schlein e Conte scovassero una candidatura in stile Todde: competente,
autorevole e radicata sul territorio. In quel caso, il governatore si ritroverebbe a raccogliere, come Soru, le briciole del suo presunto bottino elettorale. Se addirittura, poi, facesse perdere la Regione ai progressisti, si trasformerebbe all’istante in un «dead man walking» destinato a sparire per sempre dalla scena politica. Gli converrebbe? Chi ragiona sul filo della logica, risponderebbe no. Ma tra corifei interessati a mantenere poltrone e privilegi e l’irrimediabile narcisismo che ormai affligge il presidente, la logica ha da tempo perso diritto d’asilo nelle stanze di Palazzo Santa Lucia. Attenzione, però: l’insuccesso in Sardegna ha molto da dire anche al centrodestra. Lo schema della «donna sola al comando» non funziona meccanicamente in un’Italia che da anni rovescia i suoi condottieri nel giro di pochi mesi. E
tantomeno funziona in un’architettura istituzionale che prevede vari livelli amministrativi. La complessità che, grazie al cielo, costituisce ancora l’asse portante della nostra democrazia non può essere ridotta alla banalità di una leadership buona per tutti gli usi. Meloni ha affrontato le elezioni sarde al pari di un enorme social: ci ha messo la faccia (e le insopportabili faccine da comizio), qualche slogan ruffiano («fiera e forte», aggettivi che riecheggiano la natura di quell’isola) e la foto da cerimonia di una coalizione, ai suoi vertici, allineata sul palco nonostante i rancori celati dietro le quinte. L’elettorato, però, non ha abboccato all’amo. È palese che l’assenza di una classe dirigente capace di reggere le sfide (non solo elettorali) del Paese rappresenta il «vulnus» di questa maggioranza e, in particolare, di Fratelli
d’Italia. A Napoli, nei giorni scorsi, è stato eletto coordinatore del partito Marco Nonno, uno che considera Mussolini uno statista e conserva nell’album di famiglia un bel po’ di foto a braccio teso. Così la premier intende affrontare l’appuntamento del 2025 in Campania? Pensa di conquistare una Regione storicamente di sinistra con il solito drappello di «fedelissimi» raccattato nelle vecchie sezioni del Msi? La storia non mente: l’incapacità di rompere il «cerchio magico» e aprirsi a una platea di competenze più eterogenea, unita a un testardo solipsismo, è già costata la leadership ad altri prima di lei (do you remember Matteo Renzi?). In Sardegna non s’è alzato un vento nuovo. Non ancora, forse. Ma talvolta basta un segnale di fumo a indicare dove stiamo andando.