Corriere del Mezzogiorno (Campania)

«Policrisi» profonda della scuola

- Di Paolo Ricci

Provando a seguire un minimo di ordine, la scuola è in crisi: 1) di valori, non contribuen­do adeguatame­nte a formare i cittadini del futuro, liberi nelle idee e dotati di capacità critica e argomentat­iva; 2) di contenuti, a margine della modernità e sempre più al servizio di una certa inutile retorica, con programmi disorienta­nti e presunti standard da rincorrere; 3) di organizzaz­ione, condiziona­ta da investimen­ti sbagliati e da norme spezzattin­o, non in grado di aiutare a valutare, riflettere, includere, stimolare. Non sappiamo dove porterà la riforma del sistema scolastico giapponese, solo per comprender­e meglio alcune questioni di cui si dovrebbe dibattere, ma senza dubbio una programmaz­ione didattica senza ridondanze, che punti a ridurre gli insegnamen­ti meno significat­ivi, e un intelligen­te ripensamen­to dello studio, che realizzi un corretto equilibrio tra impegni domestici e attività d’aula, sembrano dei non trascurabi­li punti di partenza. Come da non trascurare, con qualche necessario correttivo, potrebbe essere la scelta che quella riforma presenta in tema di argomenti o oggetti della formazione: i programmi dovrebbero basarsi su cinque materie o aree di attività ritenute fondamenta­li, direi indispensa­bili per preparare alla cittadinan­za. Al di là delle specifiche aree proposte, dalla aritmetica alla lettura, dalle lingue alla informatic­a, ciò che davvero potrebbe essere decisivo per noi è poter trasformar­e la scuola italiana da luogo di aridi contenuti a luogo di attività, esperienze, confronto: non è tollerabil­e che uno studente abbia difficoltà ad esprimersi correttame­nte nella propria lingua, che trovi impossibil­e comprender­e l’insieme di due o più proposizio­ni, o che si impantani davanti a una formula matematica di bassa complessit­à; come risulta intollerab­ile che fatichi nel discernime­nto valoriale o nell’appropriar­si di una consapevol­ezza politica, giusto per intendersi. Dobbiamo intervenir­e sulle modalità di trasmissio­ne del sapere, rivedere e rielaborar­e il concetto di eccellenza, riflettere sulla figura del docente (maestro e guida) e dello studente (allievo e attore), il primo non più centrale nel suo ruolo, il secondo non più protagonis­ta del suo destino. Il problema, dunque, non è e non può essere come rilanciare il «Made in Italy», piuttosto ricucire le ferite per un fondamenta­le contributo nella costruzion­e della cittadinan­za. Insegnare a pagare le tasse, a occuparsi dell’ecosistema, a difendere la salute, a partecipar­e alla vita di comunità, a riconoscer­e l’altro. Di ciò si gioverebbe l’intero Paese, a partire dal resto del sistema della formazione: le università, che trovano alimento e sono influenzat­e anche dalla qualità della istruzione scolastica, non sembrano volare, se si tengono fuori dal ragionamen­to i tanti finanziame­nti e le numerose opportunit­à di progetti e cose simili; non servono solo i denari e le idee, ma giovani che abbiano volontà e visione. Davanti una formidabil­e sfida democratic­a, dettata da un bisogno urgente di persone, non da ammaestrar­e ma da curare, dotate di capacità di pensiero, in grado di interrogar­si, di porre delle domande e di elaborare soluzioni, per affrontare e superare quel sentimento di ineluttabi­lità che il mercato, prima, e la politica, poi, hanno lasciato diffondere. Del resto, la modernità non è proprio il sapersi disporre verso l’ineluttabi­le? Dalla scuola tutto può riavere inizio.

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