Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Servillo, Bernari e la Napoli dei resistenti
Ho letto l’intervista a Toni Servillo firmata da Mirella Armiero, apparsa sul Corriere l’altro ieri e mi ha fatto molto piacere che l’attore e regista abbia ricordato alcuni scrittori napoletani appartenenti ad una generazione, per lo più autodidatta, che, dopo aver vissuto gli orrori della guerra e le ombre insidiose di ogni tipo di omologazione del pensiero, si è sempre esposta con le proprie idee, con franchezza e spregiudicatezza, regalando ai giornali e ai suoi lettori le loro conversazioni e i loro dibattiti a più voci.
Luigi Incoronato, Domenico Rea, Raffaele La Capria, Carlo Bernari, il più anziano dei tre e, paradossalmente, l’unico che andò via da Napoli (peraltro giovanissimo, a diciannove anni) per riprendere il tema di coloro che sono andati via da Napoli: napoletani «della diaspora», che però, come Servillo ha opportunamente chiarito, hanno continuano a parlare di Napoli da lontano, con la distanza che li aiuta a raccontare e ricordare meglio. Personalmente ho studiato molto l’opera di Carlo Bernari (il cui cognome era Bernard prima della censura di Mussolini e del consiglio di un giovane Alvaro che si divertì ad anagrammarlo per trovargli un’alternativa convincente) che era mio zio e che ha lasciato un interessantissimo archivio di lettere e scritti che raccontano una Napoli per molti versi ignota ai lettori di allora.
Nel ’34 infatti, quando esce il romanzo Tre operai, la città non canta, né danza per le strade, ma appare piovosa e fredda, e i suoi abitanti, lottando con la miseria, si aggirano diffidenti tra le sue vie grigie, quasi spettrali, trovando un po’ di solidale pietà nel dolore e nella disgrazia. Come in Scala a San Potito anche nell’opera di Bernari, attraverso forme linguistiche e stilistiche molto diverse tra loro, emerge lo scontro tra
L’italianista e nipote dell’autore dei «Tre operai» risponde all’attore che ha sollevato sul «Corriere» il tema degli scrittori dimenticati e quello della fuga e del ritorno
l’apatia di un popolo abituato a sopportare ed aspettare pur sapendo vana la sua attesa e il bisogno di reagire e lottare per affermare i propri diritti. Napoli è, in questo senso, una città divisa in due, dimidiata, con due volti, uno vero e l’altro una semplice maschera, diceva Bernari: «Con la maschera si sono dilettati poeti e commediografi, scrittori e filosofi… Il vero volto è tutta una piaga. Ed è questo