Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Mirandolina fa rima con cucina
«non sapeva quasi cosa mi fare», e del resto obbligato alla prudenza nelle sue esternazioni (vedi la dedica al senatore Giulio Rucellai) - è il personaggio-simbolo della nuova classe in ascesa, la borghesia mercantile.
Lo dimostra - più che le non poche ed esplicite battute pronunciate in tal senso dalla stessa Mirandolina (una su tutte, riferita al marchese di Forlipopoli e al conte d’Albafiorita: «Abbiamo altro in testa noi, che dar retta alle loro ciarle. Cerchiamo di fare il nostro interesse; se diamo loro delle buone parole, lo facciamo per tenerli a bottega») l’obiezione rivolta dallo stesso conte d’Albafiorita per l’appunto al marchese di Forlipopoli: «Mirandolina ha bisogno di denari, e non di protezione». Ecco perché, giova ripeterlo, Latella ha ragione nel porre l’accento sul vero motivo per cui Mirandolina sposa il cameriere Fabrizio. Lo fa per obbedire alle ultime volontà del padre, intese a favorirla in un’ottima conduzione della locanda.
Di questo, per giunta, fornisce un’ulteriore dimostrazione proprio il tipo di scrittura adottato nella circostanza (ma, generalmente, in tutti i suoi testi) da Goldoni, a partire dal ricorso al famoso ritmo ternario delle battute. È l’equivalente della «phrase à escalier», il vero e proprio arabesco linguistico caratteristico di Marivaux e individuato da Deloffre. Ne costituisce un esempio probante, ne «Le false confidenze», la battuta rivolta da Dubois a Dorante, che si lamenta perché Araminta non vuole più vederlo: «Le state prendendo i soldi, il cuore, e questa donna non dovrebbe gridare?». E possiamo agevolmente constatare come costituisca, sul piano stilistico, l’esatto corrispettivo, per l’appunto, della scalata sociale in cui sono impegnati taluni dei personaggi in campo.
Accade lo stesso ne «La locandiera», a cominciare, addirittura, dalla prima frase del citato avvertimento ai lettori: «Fra tutte le Commedie da me sinora composte, starei per dire essere questa la più morale, la più utile, la più istruttiva». E come altri esempi di tal ritmo ternario, non meno indicativi, possiamo considerare le battute seguenti: «Non le ho mai amate, non le ho mai stimate, e ho sempre creduto che sia la donna per l’uomo una infermità insopportabile» (il cavaliere di Ripafratta), «Il di lui cuore è in fuoco, in fiamma, in cenere» (Mirandolina a proposito dello stesso cavaliere di Ripafratta), «Uh, è cotto, stracotto e biscottato!» (ancora Mirandolina e ancora a proposito del cavaliere di Ripafratta) e, per finire, «Vi stimo, vi amo, e vi domando pietà» (il cavaliere di Ripafratta a Mirandolina).
In tutto questo irrompe, oltremodo significante, l’invenzione centrale della regia: nel testo di Goldoni l’azione si svolge nella sala della locanda, nella camera del cavaliere, in un’altra camera della locanda, nella camera del conte, nella camera di Mirandolina e in una camera con tre porte, mentre nell’allestimento di Latella è ambientata sempre nella cucina. Si allude così, in maniera eclatante ed icastica insieme, tanto alla sottomissione di quei nobilucci da strapazzo alla misura di Mirandolina
quanto ad uno dei tormentoni più allusivi e godibili del plot, lo stillicidio relativo al cibo.
Infatti, ne «La locandiera» è tutto un viavai di roba da mangiare e di bevande, e delle più varie specie e qualità: si va dagli intingoli preziosi dispensati da Mirandolina al cavaliere per irretirlo alla «carnaccia di bue» e alla «minestra di riso lungo» di cui si lamenta il marchese, senza parlare dei vini, quello di Borgogna del cavaliere, quello di Cipro del marchese e quello delle Canarie del conte. In ciò, naturalmente, consiste uno degli approdi più rilevanti dell’impagabile satira esercitata da Goldoni contro la nobiltà al tramonto, ormai a null’altro dedita che a rispondere, appunto, ai richiami dello stomaco. E tanto basti, dunque, a rimarcare l’intelligenza e la pregnanza messe in campo da Latella col far ballare in cucina il valzer di finzioni, innamoramenti e calcoli composto dal Veneziano.
Del resto, Latella non si risparmia nel disseminare consimili segni forti ed esplicativi. A cominciare, tanto per intenderci, dalla pedana attraverso la quale, reiteratamente, i personaggi entrano nello spazio dell’azione o ne escono: è, indiscutibilmente, il simbolo visivo della scalata sociale di cui sopra. E parliamo di segni che, poi, confluiscono tutti in quella che rappresenta la base concettuale della regia, ossia il rilievo dato a quanti, fra i personaggi, provocano in qualche modo una rottura dell’ordine morale, economico e sociale costituito. Vedi, poniamo, la Ortensia che finge un orgasmo squassante e la Dejanira che sputa in faccia a Ripafratta. E vedi, specialmente, la «statura» davvero inusuale conferita al servitore dello stesso cavaliere.
È sempre presente (costituisce, dunque, un equivalente del «valet de chambre» della letteratura, ovvero il punto di vista dal basso) e addirittura accompagna con la chitarra elettrica il cavaliere disperato che, suonando per suo conto l’armonica a bocca, leva una sorta di serenata per risvegliare dal suo finto svenimento Mirandolina. E Mirandolina, infine, è un autentico capolavoro d’invenzione registica: esibisce le gambe nude per sedurre e, insieme, cucina una zuppa di patate, bacia sulla bocca Ripafratta (perché, in fondo, ne è innamorata) e, come emblema del dissidio che la domina, quello fra sentimento ed interesse, ne indossa il cappotto (la spoglia!) e fino al termine se lo tiene avvoltolato fra le mani.
Splendida, Sonia Bergamasco. E nel complesso convincenti gli altri. Da notare, per chiudere, che il testo di Goldoni è lasciato integro, salvo qualche piccolissimo taglio. Ecco la maniera corretta di «rivisitare» un classico.