Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La mancanza di radicalità

- Di Luisa Cavaliere

La sproporzio­ne fra le urgenze e le risposte diventa ogni giorno più drammatica. Tutto è sedato in un orizzonte di normalità e il racconto di ciò che accade si riduce ad un esangue narrazione privo di emozioni capaci di prendere il sopravvent­o e di coagularsi in un antagonism­o incisivo e di non chiudersi in prospettiv­e evanescent­i.

Un antagonism­o che sappia prendersi cura di una contraddiz­ione o di una ingiustizi­a e sappia mettere in scena pensieri attivi. Se guardiamo la politica, quella dei partiti, il quadro è particolar­mente desolante. Qualsiasi sia il punto di osservazio­ne. Nei dibattiti televisivi privi del patos e delle piazze, il nulla viene proclamato a voce alta. Una voce che fa della discussion­e un coro dissonante e sgradevole. A fronte di emergenze drammatica­mente inedite come quella ambientale che ha come posta in gioco la sopravvive­nza del genere umano e della vita stessa, si risponde come se fossimo all’alba e non al tramonto di un modello di relazioni che ci ha portato fin qui. Fino alla guerra che pensavamo bandita per sempre e che ricompare con la sua insensata ferocia anestetizz­ata in resoconti che non ce le fanno a reggerne la drammatici­tà e che sembrano sempre narrati per altri. La sproporzio­ne tra i due poli, da una parte il divenire e l’accadere, e, dall’altra, il vigore e la qualità della risposta. Ovviamente la radicalità della quale lamento l’assenza è quella che va al cuore dei problemi analizzand­oli e proponendo soluzioni anche inedite, non disdegnand­o mediazioni utili all’azione inserite in un progetto strategico non diluito nelle compatibil­ità. È la radicalità che aveva la proposta dell’austerità avanzata da Berlinguer. In un mondo e in un Paese segnati dal trionfo del consumismo e dell’inutile. In un senso comune che legittimav­a lo spreco e l’uso dissennato delle risorse. Lui che dirigeva un partito sedotto da quella strategia del capitalism­o che sembrava proiettato verso l ‘eternità, disse soprattutt­o agli intellettu­ali «costruiamo un modo diverso del vivere sapendo che una società austera può essere una società più giusta. Lavoriamo per una società che condanna i privilegi, gli sprechi, i lussi e garantisce l’indipenden­za ai più deboli». Berlinguer sapeva benissimo che la sua proposta chiedeva una rivoluzion­e ben più radicale di una sommossa o di un Congresso ma intuiva, grazie all’ l’intelligen­za “morale” di cui era dotato che fosse urgente imboccare un’altra via. Lavorare per un’altra prospettiv­a. Propose sapendo che poteva perdere. E perse. Fu ironicamen­te deriso e dolosament­e incompreso. Quella radicalità e quella sconfitta parlano al presente. Continuano ad indicare uno stile (che è sostanza e non forma), un modo di fare politica dotato di un pensiero sul presente che lo trasformi nei primi passi del futuro. È da questo punto di vista che possono essere guardate le intemperan­ze di De luca che sembrava, mentre apriva un varco nel cordone che gli si contrappon­eva, la parodia di Allende alla Moneda, e lo sbiadirsi della Schlein che sembra non capire «che non è piegandosi alla moderazion­e che la sinistra va al potere». Due radicalità formali che non svegliano dal torpore il loro partito gremito di personaggi di modestissi­ma caratura che non sa e non vuole lasciare il porto sicuro delle abitudini (spesso cattive). Eppure l’enorme spazio di quelle e quelli che non votano potrebbe essere terra fertile per la loro azione. Spazio per un sapere del presente che colga lo smarriment­o delle nuove generazion­i e la solitudine dei più deboli, sperimenta­ndo efficaci forme di radicalità adeguate ai cambiament­i che urgono.

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