Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La mancanza di radicalità
La sproporzione fra le urgenze e le risposte diventa ogni giorno più drammatica. Tutto è sedato in un orizzonte di normalità e il racconto di ciò che accade si riduce ad un esangue narrazione privo di emozioni capaci di prendere il sopravvento e di coagularsi in un antagonismo incisivo e di non chiudersi in prospettive evanescenti.
Un antagonismo che sappia prendersi cura di una contraddizione o di una ingiustizia e sappia mettere in scena pensieri attivi. Se guardiamo la politica, quella dei partiti, il quadro è particolarmente desolante. Qualsiasi sia il punto di osservazione. Nei dibattiti televisivi privi del patos e delle piazze, il nulla viene proclamato a voce alta. Una voce che fa della discussione un coro dissonante e sgradevole. A fronte di emergenze drammaticamente inedite come quella ambientale che ha come posta in gioco la sopravvivenza del genere umano e della vita stessa, si risponde come se fossimo all’alba e non al tramonto di un modello di relazioni che ci ha portato fin qui. Fino alla guerra che pensavamo bandita per sempre e che ricompare con la sua insensata ferocia anestetizzata in resoconti che non ce le fanno a reggerne la drammaticità e che sembrano sempre narrati per altri. La sproporzione tra i due poli, da una parte il divenire e l’accadere, e, dall’altra, il vigore e la qualità della risposta. Ovviamente la radicalità della quale lamento l’assenza è quella che va al cuore dei problemi analizzandoli e proponendo soluzioni anche inedite, non disdegnando mediazioni utili all’azione inserite in un progetto strategico non diluito nelle compatibilità. È la radicalità che aveva la proposta dell’austerità avanzata da Berlinguer. In un mondo e in un Paese segnati dal trionfo del consumismo e dell’inutile. In un senso comune che legittimava lo spreco e l’uso dissennato delle risorse. Lui che dirigeva un partito sedotto da quella strategia del capitalismo che sembrava proiettato verso l ‘eternità, disse soprattutto agli intellettuali «costruiamo un modo diverso del vivere sapendo che una società austera può essere una società più giusta. Lavoriamo per una società che condanna i privilegi, gli sprechi, i lussi e garantisce l’indipendenza ai più deboli». Berlinguer sapeva benissimo che la sua proposta chiedeva una rivoluzione ben più radicale di una sommossa o di un Congresso ma intuiva, grazie all’ l’intelligenza “morale” di cui era dotato che fosse urgente imboccare un’altra via. Lavorare per un’altra prospettiva. Propose sapendo che poteva perdere. E perse. Fu ironicamente deriso e dolosamente incompreso. Quella radicalità e quella sconfitta parlano al presente. Continuano ad indicare uno stile (che è sostanza e non forma), un modo di fare politica dotato di un pensiero sul presente che lo trasformi nei primi passi del futuro. È da questo punto di vista che possono essere guardate le intemperanze di De luca che sembrava, mentre apriva un varco nel cordone che gli si contrapponeva, la parodia di Allende alla Moneda, e lo sbiadirsi della Schlein che sembra non capire «che non è piegandosi alla moderazione che la sinistra va al potere». Due radicalità formali che non svegliano dal torpore il loro partito gremito di personaggi di modestissima caratura che non sa e non vuole lasciare il porto sicuro delle abitudini (spesso cattive). Eppure l’enorme spazio di quelle e quelli che non votano potrebbe essere terra fertile per la loro azione. Spazio per un sapere del presente che colga lo smarrimento delle nuove generazioni e la solitudine dei più deboli, sperimentando efficaci forme di radicalità adeguate ai cambiamenti che urgono.