Corriere del Mezzogiorno (Campania)
La «Venere» 60 anni dopo per i turisti
Il sindaco Se avremo la possibilità di salvare una parte del murale, lo faremo È simbolo identitario
La Venere risorta dalle ceneri di nuovo in pompa magna è solo una fantasia horror dell’artista da vecchio? O c’entra anche il sindaco? Non si può escludere che entrambi siano colpevoli: l’autore-attore e il sindaco-committente.
Michelangelo Pistoletto in testa, poiché del film in cui si materializza un ricordo infantile nel contesto sbagliato e in dimensioni fuori misura è lui in persona il protagonista indiscusso in piazza Municipio. In seconda battuta Gaetano Manfredi che ne paga una e ne prende due e che ora però deve affidarsi ai preti per acchiappare e rinchiudere il fantasma dell’opera d’arte contemporanea. Perché proprio di questo si tratta nella piazza napoletana: di una seduta spiritica e della riapparizione del corpo dell’arte in un simulacro multicolore di idee fumose per una platea di creduloni. Dopo il rogo, il falò delle vanità artistiche e politiche. Sui danni culturali che ne conseguono purtroppo nessuno pare abbia voglia di ragionare. Finito il secolo in cui l’arte è scesa dal cavalletto sfondando le pareti del salotto borghese e la vita reale ha infranto tutte le finzioni del mondo rappresentato, è un destino accettabile quello dell’opera che si gonfia per celebrare sé stessa, monumento alla memoria di un passato altrettanto illusorio di proprietà di collezionisti e musei?
La Venere degli Stracci nelle sue già troppe versioni originali non avrebbe dovuto essere una scultura nel senso classico del termine. Lo è diventata nel tempo, assurgendo a paradigma piuttosto artificioso di un’epoca storica e di un’ideologia estetica consegnata agli archivi della storia dell’arte. Quanto più Pistoletto ha cercato negli anni di precisare forme e misure dell’assemblaggio di statua e stracci nato come installazione nel 1967, dunque nel modo cangiante dei luoghi e delle occasioni espositive, tanto più si è impresso nella memoria collettiva il senso definitivo, si è cioè scolpita l’aura intoccabile dell’Arte Povera intorno all’opera. Quando si nomina la Venere degli Stracci, oggi come oggi, gli studiosi sono portati a discutere un principio estetico che non ha più nulla a che vedere con l’attualità per propinarci il valore un po’ dozzinale di una bellezza seriale cementata nella riproduzione di una dea minore, dal grande Pistoletto contrapposta alla vitalità anonima e caotica sprigionata dalla massa di stracci scivolati da corpi sconosciuti che si ammassano e premono sul corpo nudo della statua.
Dimenticando nel caso della nuova versione napoletana che la sproporzione tra la figura femminile enorme e gli abiti dimessi non certo di un gigante sono un’offesa alla misura dell’umano che distinse la poetica dell’Arte Povera dalla corrente coeva del minimalismo americano. Nella sola contraddizione violenta e alquanto semplicistica degli elementi compositivi ci viene suggerito, anzi imposto di riconoscere una visione dell’arte e della società figlia degli anni Sessanta alternativi anticonsumistici, in linea con quella dei lavori più
importanti dell’artista piemontese: gli specchi su cui le figure incollate e poi stampate fanno da cornice e sostegno alla vita provvisoria degli spettatori, passanti che vi si specchiano per caso o per necessità, consapevoli e non. Tuttavia, senza affrontare la questione se tutto il lavoro di Pistoletto questi concetti dismessi li abbia mai incarnati e rappresentati fino in fondo e se ci sia ora una qualche ragione seria per sostenere che si possa produrre sessant’anni dopo un’opera ascrivibile all’Arte Povera per il divertimento fotografico dei turisti, sarebbe giusto ricordare che quell’ideologia fu rivoluzionaria e servì a sconvolgere accademie e pratiche museali imperanti. E che quel modo moderno, antiautoritario e poetico di concepire la relazione tra arte e società disegnò traiettorie esistenziali ondivaghe, regalando anche successo e un po’ di fama ad alcuni, mai carriere certe e medaglie da esibire.
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