Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il sociologo che seppe resistere alla malattia
Brilla per sempre, pazzo diamante. Ovunque tu sia, continua a farlo. Antonio Di Fuccia, sociologo e scrittore napoletano, è morto qualche giorno fa a 58 anni, gli ultimi 24 dei quali costretto su una carrozzella. Per dare un’idea dell’avventura umana che nonostante la malattia è riuscito a donarsi, bastano gli ultimi passi del testo che il magistrato Catello Maresca ha firmato per il suo libro: «Delinquenti e camorristi vanno combattuti senza se e senza ma, con coraggio e volontà. Qualità come quelle di Antonio, che ringrazio per il suo straordinario esempio» (dalla prefazione a Scacco ai re, Giammarino Editore 2023). In queste parole c’è tutta la sua lezione morale, una delle più grandi storie d’amore per la vita che mi sia trovato a raccontare.
Nato a San Giovanni Suergiu (Sulcis, Sud Est della Sardegna) nel 1966, pochi mesi dopo si trasferisce con la famiglia a Napoli. Artista, rocker incallito e a sua volta chitarrista, fanatico dei Pink Floyd e Pino Daniele. Grande sportivo (da sub scendeva a 50 metri), appassionato di politica, storia e antropologia, si laurea in Sociologia alla Federico II e comincia a collaborare con l’ateneo (e diversi centri ricerca), conseguendo un master in Metodologia della ricerca sociale alla Bicocca di Milano. La vita sorride a questo ragazzone spigliato e consapevole del proprio talento, che comincia a girare per le università approfondendo (era il 1995) il nesso antropologico tra l’indifferenza dei residenti e la permanenza dei rifiuti tossici nella «terra dei fuochi». Poi l’incontro con la donna che gli sarebbe rimasta accanto per sempre, nella salute e nella malattia, nonostante Di Fuccia si dichiari marxista-leninista al punto da ritenere «il Capitale la vera Bibbia». Con Agnese Laurenza, musicista e attrice napoletana, Di Fuccia si sposa con l’intenzione di condividere innanzi tutto «la bellezza dei vent’anni» come cantava Enzo Jannacci (in Io e Te ). Ma presto le cose cambiano, questo ragazzone comincia a cadere dai marciapiedi, a non reggersi in piedi. La calunnia è il carburante dell’ignoranza, l’opinione comune è che Antonio ami bere, drogarsi, manifestare l’inadeguatezza alla presunta normalità della borghesia. Invece è la sclerosi multipla, che gli impedisce di calcolare distanze, dislivelli e ostacoli. Nel 2000 (a 34 anni) Di Fuccia s’incammina verso un bosco sconosciuto, dando vita «a una delle più incredibili convivenze con la malattia» registrate dai medici che si sono presi cura di lui. Si laurea nuovamente, nel 2016 in Scienze dei servizi sociali. Gira il mondo con Agnese, la cui intuizione («a vita nun po’ fernì accussì… ») diventa atto d’amore e insieme di fede, passeggiata senza ombrello quando fuori c’è il diluvio. Antonio Di Fuccia completa le ricerche sulla criminalità locale, costruendo un albero genealogico degno delle migliori indagini professionali. Non lo fa per morbosità, ma perché la sua missione nel frattempo è diventata un’altra: capire perché chi avrebbe tutto per sorridere alla vita, prova a sfregiarne la bellezza; e al tempo stesso per cristallizzare le ragioni per cui, chi avrebbe ottimi motivi per imprecare contro il destino, riesce a trovare dentro sé saggezza e spiritualità. Scrive sui giornali, lavora incessantemente su una scomoda carrozzella. Una carrozzella che l’indomito coraggio di sua moglie porta fino al Polo Nord, in Africa, sull’Etna, dovunque possano gridare «stamme ancora ccà». Poi la scelta di mettere insieme tutte quelle analisi sulla criminalità locale, prima che la sclerosi rendesse (gli ultimi anni) un’immeritata umiliazione.
Quando l’ho conosciuto Antonio parlava con un filo di voce e la vivacità minacciosa dei suoi occhi. Muoveva solo la testa, in compenso sorrideva spesso. La strada che ha permesso alle nostre vite di incrociarsi si chiama «via Giulietta degli Spiriti», film che Federico Fellini fece uscire tra 1965 e 1966. Casualità, tra gli anni tra concepimento e nascita di Antonio. È morto il 9 marzo, nella casa di Frattamaggiore che Agnese è stata costretta a trasformare per accogliere i suoi stati di grazia, i suoi abbandoni. Non ci sono stati funerali cattolici, più probabilmente molte tesi di laurea sulla sua (quasi innaturale) resistenza alla malattia. La sua vita diventerà un romanzo, forse lo spettacolo teatrale di chi, anche volendolo, non poteva concedersi nemmeno il lusso di arrendersi. Brilla ancora pazzo diamante. Ovunque sei.