Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Il mito della rivoluzione
Fino al punto di indurre il Duce ad arditi parallelismi con l’odiato sistema sovietico. In proposito, suggerisco la lettura dell’approfondita radiografia interna al Regime del professor Emilio Gentile (Storia del fascismo, Laterza 2022).
Nel secondo dopoguerra, «vento del nord», macerie materiali e morali, vittoria di «Baffone» sul nazismo, guerra fredda, riportarono alla ribalta «l’ideale». Consapevole fin da subito della sua impraticabilità, Palmiro Togliatti l’accantonò in un allegato dell’ «album di famiglia», optando per l’inserimento del Pci nella rinascita della democrazia. Accantonamento, non ripudio esplicito, per non rinunciare a una potente suggestione identitaria e premunirsi da scavalcamenti a sinistra. Una sorta, si può dire, di «ambiguità rivoluzionaria», rinfacciata dall’estremismo sorto sull’onda delle agitazioni studentesche, soprattutto delle aspre lotte operaie all’inizio degli anni ‘70: lotte dovute alla sacrosanta aspirazione di adeguare condizioni salariali e normative, rimaste inevase a fronte dell’intenso sviluppo economico, che da più parti furono intese come aurora di un rivolgimento sociale.
Non intendo ripercorrere la storia degli anni di piombo, accennerò soltanto al clima intellettuale, a mio avviso trascurato, in cui maturò il terrorismo: sdoganamento della violenza di piazza e dell’indisciplina nei luoghi di studio e lavoro; manicheismo acceso; ampio spazio mediatico, non privo di
compiacimento, nei confronti di fenomeni eversivi; sensi di colpa più o meno consci, suscitati dalla riapertura dell’«album di famiglia». Quando iniziarono a fioccare pallottole, rivolte verso obiettivi indifesi - in prevalenza magistrati e giornalisti riformisti - si vociferò di democrazia in pericolo; di Italia sull’orlo di un baratro reazionario; di assurdi confronti con l’Argentina. Il tutto costituì l’humus «culturale» idoneo a esaltare i deliranti proclami di pattuglie di terroristi, col loro nutrito, ma non sterminato, codazzo di fiancheggiatori.
Dopo la vicenda Moro, lo Stato si risolse a fare sul serio e con la legge sui pentiti, accompagnata da incisiva azione, chiuse la partita, dopo un paio d’anni di feroce recrudescenza. In sintesi fu un periodo in cui numerosi giovani, tra cui il sottoscritto, vagheggiarono di rivoluzione; intellettuali di grido ne discettarono; i più fanatici impugnarono le armi. Tuttavia, la stragrande maggioranza del Paese non si interessò a palingenesi, bensì a miglioramenti nel lavoro, ascensore
sociale ancora funzionante; a divertirsi: ricordo file di automobili dirette al mare; discoteche e trattorie piene. L’Italia progredì; il rimpianto per chissà quale grande occasione mancata appartiene a pochi.
Per inciso, il terrorismo politico non sfiorò il Meridione, pur in presenza di evidenti motivi di conflittualità: segno di estraneità al fanatismo, antica saggezza, ripulsa di derive autoreferenziali, che hanno molto da contribuire alla cultura del resto d’Italia.
Lascito negativo, la persistenza di contrapposizioni ideologiche, delegittimazioni di avversari, moralismo strumentale, intolleranza diffusa. A livello sociale, un antagonismo spesso privo di obiettivi, facilmente manipolabile a scopi di potere.
Ritengo anche un insegnamento utile a un Governo di centrodestra. Di non attaccarsi all’«album di famiglia» per prevenire scavalcamenti, ma di aprirsi con autorevolezza al confronto su riforme condivisibili. Il Paese è maturo per apprezzare.