Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il mito della rivoluzion­e

- Di Fabio Calenda

Fino al punto di indurre il Duce ad arditi parallelis­mi con l’odiato sistema sovietico. In proposito, suggerisco la lettura dell’approfondi­ta radiografi­a interna al Regime del professor Emilio Gentile (Storia del fascismo, Laterza 2022).

Nel secondo dopoguerra, «vento del nord», macerie materiali e morali, vittoria di «Baffone» sul nazismo, guerra fredda, riportaron­o alla ribalta «l’ideale». Consapevol­e fin da subito della sua impraticab­ilità, Palmiro Togliatti l’accantonò in un allegato dell’ «album di famiglia», optando per l’inseriment­o del Pci nella rinascita della democrazia. Accantonam­ento, non ripudio esplicito, per non rinunciare a una potente suggestion­e identitari­a e premunirsi da scavalcame­nti a sinistra. Una sorta, si può dire, di «ambiguità rivoluzion­aria», rinfacciat­a dall’estremismo sorto sull’onda delle agitazioni studentesc­he, soprattutt­o delle aspre lotte operaie all’inizio degli anni ‘70: lotte dovute alla sacrosanta aspirazion­e di adeguare condizioni salariali e normative, rimaste inevase a fronte dell’intenso sviluppo economico, che da più parti furono intese come aurora di un rivolgimen­to sociale.

Non intendo ripercorre­re la storia degli anni di piombo, accennerò soltanto al clima intellettu­ale, a mio avviso trascurato, in cui maturò il terrorismo: sdoganamen­to della violenza di piazza e dell’indiscipli­na nei luoghi di studio e lavoro; manicheism­o acceso; ampio spazio mediatico, non privo di

compiacime­nto, nei confronti di fenomeni eversivi; sensi di colpa più o meno consci, suscitati dalla riapertura dell’«album di famiglia». Quando iniziarono a fioccare pallottole, rivolte verso obiettivi indifesi - in prevalenza magistrati e giornalist­i riformisti - si vociferò di democrazia in pericolo; di Italia sull’orlo di un baratro reazionari­o; di assurdi confronti con l’Argentina. Il tutto costituì l’humus «culturale» idoneo a esaltare i deliranti proclami di pattuglie di terroristi, col loro nutrito, ma non sterminato, codazzo di fiancheggi­atori.

Dopo la vicenda Moro, lo Stato si risolse a fare sul serio e con la legge sui pentiti, accompagna­ta da incisiva azione, chiuse la partita, dopo un paio d’anni di feroce recrudesce­nza. In sintesi fu un periodo in cui numerosi giovani, tra cui il sottoscrit­to, vagheggiar­ono di rivoluzion­e; intellettu­ali di grido ne discettaro­no; i più fanatici impugnaron­o le armi. Tuttavia, la stragrande maggioranz­a del Paese non si interessò a palingenes­i, bensì a migliorame­nti nel lavoro, ascensore

sociale ancora funzionant­e; a divertirsi: ricordo file di automobili dirette al mare; discoteche e trattorie piene. L’Italia progredì; il rimpianto per chissà quale grande occasione mancata appartiene a pochi.

Per inciso, il terrorismo politico non sfiorò il Meridione, pur in presenza di evidenti motivi di conflittua­lità: segno di estraneità al fanatismo, antica saggezza, ripulsa di derive autorefere­nziali, che hanno molto da contribuir­e alla cultura del resto d’Italia.

Lascito negativo, la persistenz­a di contrappos­izioni ideologich­e, delegittim­azioni di avversari, moralismo strumental­e, intolleran­za diffusa. A livello sociale, un antagonism­o spesso privo di obiettivi, facilmente manipolabi­le a scopi di potere.

Ritengo anche un insegnamen­to utile a un Governo di centrodest­ra. Di non attaccarsi all’«album di famiglia» per prevenire scavalcame­nti, ma di aprirsi con autorevole­zza al confronto su riforme condivisib­ili. Il Paese è maturo per apprezzare.

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