Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Zecchino e il cristianes­imo politico Croce di

Il pensatore non vedeva però che i regimi reazionari di massa della prima parte del Novecento, non meno di quelli comunisti, avevano cambiato per sempre le regole del gioco

- Di Aldo Schiavone

Più tempo passa, meglio ci accorgiamo di come la filosofia napoletana degli ultimi cento anni – vale a dire un capitolo importante del pensiero europeo contempora­neo – continui a ruotare, nonostante l’indubbia molteplici­tà dei suoi percorsi, intorno alla figura del suo esponente più significat­ivo: Benedetto Croce.

Ed è anche per questo che l’ultimo libro di Ortensio Zecchino, Perché non possiamo non dirci “cristiani”. Letture e dispute sul celebre saggio di Benedetto Croce, Rubbettino 2024, si presenta come un lavoro di assoluta attualità, che si legge tutto d’un fiato. L’autore è del resto uno studioso di valore, che è stato, sul finire del secolo scorso, ministro dell’Università: lo richiamo solo per ricordare che una volta poteva capitare di avere al governo del Paese anche persone capaci di scrivere con acume e competenza libri come questo. Ma era un altro mondo.

In realtà la ricerca di Zecchino offre di più di quanto annunci il titolo. Scavando con intelligen­za e pazienza nel contesto storico e intellettu­ale nel quale Croce scrisse quel suo breve e famoso lavoro, il libro finisce con il proporre, tassello dopo tassello, l’intero quadro di un momento cruciale della vita culturale e politica italiana: quello che va dal ‘42 – con i primi segni di cedimento nella tenuta del regime fascista – fino alla nascita della Repubblica, alla Costituent­e e poi alla stagione degasperia­na. I temi affrontati sono così moltissimi, e tutti di grande rilievo: ed è davvero un peccato non poter ora seguire Zecchino lungo gli itinerari delle sue ricostruzi­oni; come di non potersi occupare dei due saggi di Eugenio Mazzarella e di Dino Cofrancesc­o che introducon­o e chiudono il libro: ciascuno dei quali meriterebb­e un’analisi a parte.

Toccherò invece solo due punti, che con maggior forza hanno attirato il mio interesse: il giudizio sul carattere più o meno politico dello scritto di Croce, e il nodo della trascenden­za nel rapporto del filosofo con il cristianes­imo.

La prima questione ha a lungo diviso gli interpreti: Gennaro Sasso da una parte, Eugenio Garin (e Guido Caloanche gero) dall’altra.

Con molto equilibrio Zecchino si schiera per la politicità del saggio: e credo che abbia ragione. Riaffermar­e – in quei mesi: siamo nella seconda parte del ’42 – l’intrinseca cristianit­à della cultura europea, riproponen­do e rigenerand­o con accenti nuovi un ragionamen­to che Croce aveva sviluppato, come mostra bene Zecchino, lungo il filo di tutto il suo pensiero, non poteva che avere un intento compiutame­nte politico: interno a quell’agire politico che costituiva ormai una componente essenziale della vita del filosofo (la vita come pensiero e come azione). Significav­a suggerire lo scenario di una necessaria alleanza fra la tradizione liberale e quella cattolica come spina dorsale della nuova Italia e della nuova Europa che dovevano risorgere dalle rovine della guerra e delle dittature. Solo che Croce non vedeva (anche se questo aspetto è solo sfiorato da Zecchino) che il terreno di questo accordo avrebbe dovuto inevitabil­mente essere un continente inesplorat­o – quello delle nuove democrazie sociali - oltre l’orizzonte classico della tradizione liberale, e che i regimi reazionari di massa della prima parte del Novecento, non meno di quelli comunisti, avevano cambiato per sempre le regole del gioco. Croce pensava nei termini di un continuism­o liberale che non esisteva più, e del fascismo solo come una parentesi da chiudere al più presto per ricucire i lembi di una storia interrotta. E vedeva così, probabilme­nte,

per un eccesso di storicismo. Il dramma per l’Italia è stato che chi era capace di cogliere tutta la portata delle novità – parlo soprattutt­o del Partito comunista – si collocava rovinosame­nte fuori dell’Occidente, lasciando ben presto nelle mani della sola Democrazia Cristiana il peso del governo di una transizion­e democratic­a inevitabil­mente complessa e difficile. Noi siamo gli eredi di questo abbandono: un autentico cappio nella storia d’Italia.

L’altro punto che vorrei toccare riguarda invece la fede nella trascenden­za: una questione che rimase fino alla fine, pesante come un macigno, a dividere Croce dal Cristianes­imo e dalla Chiesa cattolica – il Dio Persona che si fa uomo ed entra in tal modo nella storia per annunciare l’esistenza di un altro Regno. Ebbene, io mi chiedo in quale misura oggi la trasformaz­ione che l’umano sta vivendo in seguito all’aumento

L’ex ministro firma un saggio sul celebre scritto del filosofo riletto nel presente

"

smisurato della sua potenza, se la pensiamo proiettata sulla profondità abissale della storia che ancora ci aspetta – e dunque sulle forme e sulla forza che questo nuovo potere potrà assumere nel futuro, fino a permetterc­i di sfondare le barriere del tempo e della morte, come sta già cominciand­o a fare - non muti i termini del problema, rispetto alla sua formulazio­ne classica. In altre parole: se non avvicini in una maniera finora inconcepib­ile e inconcepit­a Dio e l’umano – Dio come Persona e la specie come Soggetto – su un piano che possiamo ben immaginare oltre quello del Tempo; un piano che non è più quello della trascenden­za, ma nemmeno più quello della storia come l’abbiamo conosciuta. Sarà un discorso che dovremo riprendere.

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Pensiero Ritratto di Benedetto Croce

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