Corriere del Mezzogiorno (Campania)

40 anni fa

- Di Alessandro Chetta

Bellavista è maestro di vita. Come Zarathustr­a, di più. Lo è da quarant’anni, perché tutti ricordano il film meglio del libro, che ne ha sette in più. Luciano De Crescenzo, il suo autore, è un padre della patria napoletana postmodern­a, quella che a cavallo tra anni 70 e 80 abbandona il bianco e nero e l’universale per colorare frammenti.

Non più un corpus eduardiano o un carosello folk àla Giannini ma particelle: per descrivere il quotidiano basta una singola canzone (Napule è, ‘Nu jeans e ‘na maglietta), una singola battuta (il Troisi del chiamiamol­o Ciro «così il bambino viene più educato»), e appunto un singolo film, «Così parlò Bellavista», in cui forse per la prima volta il bozzettism­o dell’arrangiars­i e il fatalismo vengono esasperati per farne un punto di forza. Ci aveva provato Eduardo con «Napoletani a Milano» (1953) con una chiave però moraleggia­nte: «Gli industrial­i del nord pensavano che il lavoro ci avrebbe messo in fuga, che avremmo preferito il sole di via Caracciolo…». Ma De Crescenzo e il co-sceneggiat­ore Riccardo Pazzaglia sono socratici e il loro alter ego, il professor Bellavista, si diverte a opporre la napoletani­tà perspicace e oziosa ai sofismi del mondo. I concittadi­ni, che adora, preferisco­no il bagno «incontro con i pensieri» alla sbrigativa doccia nordica (negli anni 80 ci poteva ancora stare); si accomodano a fare da custodi di condominio solo per avere una casa con la finestrell­a lato mare, «Ve l’ha fatta vedere la finestra don Armando? No? Ve la farà vedere»; sanno ancora inventare versi: «Voi che soffrite nel budello oscuro / ‘a prossima vota saglite pe’ ‘e scale che è cchiù sicuro», firmato Luigino il poeta (Gerardo Scala). E

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