Corriere del Mezzogiorno (Campania)
40 anni fa
Bellavista è maestro di vita. Come Zarathustra, di più. Lo è da quarant’anni, perché tutti ricordano il film meglio del libro, che ne ha sette in più. Luciano De Crescenzo, il suo autore, è un padre della patria napoletana postmoderna, quella che a cavallo tra anni 70 e 80 abbandona il bianco e nero e l’universale per colorare frammenti.
Non più un corpus eduardiano o un carosello folk àla Giannini ma particelle: per descrivere il quotidiano basta una singola canzone (Napule è, ‘Nu jeans e ‘na maglietta), una singola battuta (il Troisi del chiamiamolo Ciro «così il bambino viene più educato»), e appunto un singolo film, «Così parlò Bellavista», in cui forse per la prima volta il bozzettismo dell’arrangiarsi e il fatalismo vengono esasperati per farne un punto di forza. Ci aveva provato Eduardo con «Napoletani a Milano» (1953) con una chiave però moraleggiante: «Gli industriali del nord pensavano che il lavoro ci avrebbe messo in fuga, che avremmo preferito il sole di via Caracciolo…». Ma De Crescenzo e il co-sceneggiatore Riccardo Pazzaglia sono socratici e il loro alter ego, il professor Bellavista, si diverte a opporre la napoletanità perspicace e oziosa ai sofismi del mondo. I concittadini, che adora, preferiscono il bagno «incontro con i pensieri» alla sbrigativa doccia nordica (negli anni 80 ci poteva ancora stare); si accomodano a fare da custodi di condominio solo per avere una casa con la finestrella lato mare, «Ve l’ha fatta vedere la finestra don Armando? No? Ve la farà vedere»; sanno ancora inventare versi: «Voi che soffrite nel budello oscuro / ‘a prossima vota saglite pe’ ‘e scale che è cchiù sicuro», firmato Luigino il poeta (Gerardo Scala). E