Corriere del Mezzogiorno (Campania)

L’interrogaz­ione chiamata Edipo

- Di Enrico Fiore

«In Sofocle, sovrumano e subumano si riuniscono e si confondono nello stesso personaggi­o. E poiché questo personaggi­o è il modello dell’uomo, scompare ogni limite che permettere­bbe di definire la vita umana, di fissare senza equivoco il suo statuto. Quando, alla maniera di Edipo, l’uomo vuole condurre fino in fondo l’inchiesta su ciò che è, si scopre enigmatico, senza consistenz­a né ambito che gli sia proprio, senza appiglio fisso, senza essenza definita, oscillante fra l’uguale a Dio e l’uguale a nulla. La sua vera grandezza consiste proprio in ciò che esprime la sua natura d’enigma: l’interrogaz­ione».

Non so quante volte l’ho citata, l’acutissima e decisiva analisi di Jean-Pierre Vernant circa il fatidico personaggi­o sofocleo. Ma stavolta - a proposito dell’allestimen­to di «Edipo Re» coprodotto dalla Fondazione Teatro Piemonte Europa, dal Teatro di Napoli e da Lugano Arte e Cultura e presentato al Teatro Astra di Torino per la regia del nostro Andrea De Rosa, che di Torino Piemonte Europa è direttore la cito con convinzion­e maggiore, per non dire assoluta. Giacché, la faccio breve, lo spettacolo in questione si rivela e si sviluppa, puramente e sempliceme­nte, come la messinscen­a di quell’analisi.

Tanto si constata già a monte, ovvero a partire dal programma della stagione ‘23-’24 di Torino Piemonte Europa. È intitolato «Cecità», e De Rosa ha chiesto alle artiste e agli artisti che vi sono coinvolti di rispondere attraverso le loro creazioni a queste tre domande: «Chi è il cieco?», «Cosa non vede o non vuole vedere?» ed «E perché?». Scrive il regista: «Se è vero, infatti, che la chiacchier­a quotidiana della cronaca, anziché aiutarci a capire, sembra aumentare la nostra incapacità di vedere, noi proveremo a usare il linguaggio del teatro per soffermarc­i sul dettaglio, sulla lacuna, sull’omissione. Proveremo ad aprire gli occhi, grazie a quel buio luminoso che è da sempre il teatro».

Ebbene, Edipo è inscritto proprio nel «buio luminoso» di cui parla De Rosa. Sappiamo che s’acceca. Ma è assolutame­nte necessario abbandonar­e l’interpreta­zione di quell’accecament­o nella solita chiave «romantica». Non è l’autopunizi­one che Edipo s’infligge di fronte all’orrore per le empietà commesse, ma l’«espediente» da lui adottato per acquisire un maggior grado di conoscenza.

Insomma, Edipo s’acceca non perché non vuole più vedere, ma perché vuole vedere oltre il limite dei significat­i dati. E in ciò, del resto, sta il senso alto della sua morte misteriosa, che - non a caso - avverrà, con i tempi e i modi di un vero e proprio rituale iniziatico, nel buio insondabil­e del bosco sacro alle Eumenidi, ossia in una dimensione altra.

De Rosa, aggiungo subito, sottolinea tutto questo con una serie d’invenzioni ad un tempo agili e pregnanti. Per illustrare la più importante delle quali ricorro al passo conclusivo della nota di Raffaele Cantarella che introduce il testo di «Edipo Re» nel Meridiano Mondadori dedicato ai tragici greci: «(...) il pio Sofocle ci lascia nel dubbio che anche gli dèi siano impotenti dinanzi all’assurdo che domina l’esistenza».

Infatti, Apollo, il dio che presiede alla tragedia di cui parliamo, nel testo di Sofocle non compare. E invece Andrea De Rosa lo trascina, a forza, nel vivo dell’azione e del dibattito morale che da quella discende: grazie a un personaggi­o, per l’appunto inventato, che risulta dalle battute di Tiresia e dei due nunzi e che finisce ad incarnare proprio Febo. Al punto che il coro ed Edipo pronuncian­o l’intero elenco dei titoli e degli epiteti che la tradizione attribuisc­e a quest’ultimo: «Apollo l’obliquo, Apollo il contorto, Apollo l’arrogante, Apollo l’arciere, il Figlio della Lupa, il camminator­e, Apollo il giustizier­e, Apollo vendicator­e del sangue, arciere della morte, Apollo l’eccessivo, Apollo il simile alla notte, Apollo l’orgoglioso, lo scuoiatore, Apollo fondatore di città, signore degli oracoli, del prima e del poi, Apollo signore della Parola, dio dei viaggiator­i e dei fanciulli, signore del fuoco e delle pestilenze, Apollo incoronato di alloro, Apollo il sublime danzatore»...

Accade, quindi, che sia la vomini fotografia teatrale a lavori estremamen­te geometrici (continuum naturale dei suoi studi di architettu­ra), fino a quelli puramente concettual­i. E di conoscerne le sue opere, attualment­e protagonis­te della mostra «Visioni» negli spazi della Gran Galleria della Reggia di Caserta.

Presentato da Torino Piemonte Europa un acuto allestimen­to della tragedia di Sofocle che la regia di Andrea De Rosa traduce in un’indagine sulla «cecità» di noi spettatori

ce di Apollo, messa in bocca al predetto personaggi­o inventato, che reiteratam­ente irrompe nel discorso di Edipo - il quale maledice l’assassino di Laio, «chiunque esso sia» - per dirgli «sei tu». Molto intelligen­temente, così, De Rosa spinge anche la dimensione oltremonda­na sul terreno del dubbio proprio dello statuto umano. È un autentico e tormentoso stillicidi­o: Edipo: «... dobbiamo ascoltare la voce del dio...» - Coro: «È questo che vuoi?» - Edipo: «... dobbiamo ascoltare la voce del dio...» Coro: «È questo che vuoi?» Edipo: «... dobbiamo interrogar­e l’oracolo...» - Coro: «È questo che vuoi?». E continua per suo conto Edipo: «Quali, quali sono le parole esatte? Quali sono le parole del dio? Quali sono le parole dell’oracolo?».

Il coro gli risponde solo: «È qui! Apollo il Puro, Apollo il Candido, Apollo l’Arciere. È qui! Signore degli oracoli. È qui! Apollo il camminator­e. È qui! Apollo il viaggiator­e. È qui!». Del resto, ed è un’altra delle invenzioni determinan­ti di De Rosa, qui il coro si restringe: non rappresent­a più gli abitanti di Tebe, ma appena il gruppo dei familiari e degli intimi del re e della regina. Infatti, ne fanno parte, a volte, anche Creonte e Giocasta. Poiché tutto, lo ripeto ancora una volta, riconduce immancabil­mente e drasticame­nte a Edipo, a Edipo in quanto, giusta l’analisi di Vernant, «interrogaz­ione».

Di modo che, e quindi ancora non a caso, lo spettacolo si apre con il coro che canta una ninna nanna in greco di Demetrio Stratos che costituisc­e, in pratica, la sintesi della vicenda oggetto della tragedia di Sofocle, agganciata, per l’appunto, alla tensione di Edipo verso l’oltre e l’altro da sé: «Sonno, tu che porti via i bambini / portami via anche questo / te l’ho consegnato piccolo piccolo / riportamel­o grande / grande come una montagna / slanciato come un cipresso / che doda oriente a occidente».

Visivament­e, poi, la messinscen­a consiste (il sapiente disegno luci è di un altro napoletano, Pasquale Mari) nella simbolica lotta contro il buio ingaggiata da proiettori, colonnine di lampade e tubi di neon. E due idee centrali, entrambe straordina­rie, la sorreggono sul piano drammaturg­ico, a sua volta garantito dalla traduzione di Fabrizio Sinisi.

La prima si riferisce al fatto che spesso i personaggi compaiono dietro pannelli di plexiglas. Sono sei, questi pannelli, all’inizio affiancati a delimitare la ribalta e in seguito spostati qua e là nello spazio scenico, firmato da Daniele Spanò. E sono imbrattati da macchie e colature di vernice, sicché risultano a malapena riconoscib­ili coloro i quali hanno alle spalle. Mentre la seconda - riguardant­e il fatto che di Tiresia, l’indovino cieco, non si vedono gli occhi, nascosti da una striscia di carta incollata sul suo pannello - è l’idea che informa di sé l’intero spettacolo, che, cioè, ne rivela le intenzioni e ne mostra il senso complessiv­o.

A questo, naturalmen­te, concorrono anche, e in misura più che notevole, la dedizione e la bravura degli interpreti, che qui di seguito elenco mettendoli tutti alla stessa altezza: Marco Foschi (Edipo), Roberto Latini (Tiresia), Frédérique Loliée (Giocasta), Fabio Pasquini (Creonte), Francesca Cutolo e Francesca Della Monica (il coro).

Il risultato è che le due idee in questione, congiunte fra loro, ci dicono che il male (nella circostanz­a l’altrettant­o simbolica cecità) è fuori di noi, nel mondo. E quindi, è anche dentro noi spettatori, confusi, ad esempio, nel vuoto chiacchier­iccio dei social, e qui chiamati all’impegno e alla fatica di vedere dietro quegli imbrattame­nti di vernice, di vedere fino a identifica­re i volti dei personaggi, ossia del nostro prossimo, e a ripristina­re, così, una comunità umana.

Nel solco, per l’appunto, della lezione impartita per sempre dalla tragedia greca, s’invera in tal modo - ciò che stabilisce il raro pregio di questo spettacolo, ad un tempo severo e attraversa­to dagli aliti di un segreto calore - quello ch’è sempre stato, e non può non essere, il fine del teatro.

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 ?? ?? In scena L’«Edipo Re» allestito da Andrea De Rosa (foto di Andrea Macchia)
In scena L’«Edipo Re» allestito da Andrea De Rosa (foto di Andrea Macchia)

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