Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Due vite perdute e una Napoli divisa tra sguardi di sfida e tanta malinconia

Quanto indietro dobbiamo andare, nella storia di Napoli e dei suoi giovani infelici, per recidere una volta e per sempre le radici malate che affliggono da secoli questa città?

- Di Massimilia­no Virgilio

Come previsto, e a norma di legge, da ieri a una vita perduta se ne è aggiunta un’altra. Ammesso che non fosse già perduta prima dello scorso agosto, che non fosse perduta prima di tirar fuori quella maledetta pistola, prima che decidesse di portarla con sé quella sera, prima di prima e prima di prima... Fin dove bisogna risalire, indietro nel tempo e nelle generazion­i, per immaginare la feritoia entro cui si sarebbe potuto gettare il seme di speranza che avrebbe potuto evitare questa tragedia?

Quanto indietro dobbiamo andare, nella storia di Napoli e dei suoi giovani infelici, per recidere una volta e per sempre le radici malate che affliggono da secoli questa città? Perché il terminale di queste radici, una delle foglie più verdi dell’albero, doveva essere Giogiò? Giogiò Cutolo, Francesco Pio Maimone e tutte le altre verdi foglie uccise dalle radici di un albero malato, la cui corteccia è aguzza e feroce come il morso di una tigre. «C’è una vita e c’è una morte, e in mezzo ci sono bellezza e malinconia» scriveva Albert Camus in uno dei suoi versi più noti. Bellezza e malinconia come interludio tra un prima e un dopo. Eppure oggi la malinconia del dopo è più intensa che mai. Non è bastato il fattaccio, non è bastato lo sparo, il funerale in piazza del Gesù, l’omelia del monsignore, le parole della sorella, il pianto degli amici, non è bastata l’indignazio­ne collettiva, non sono bastate nemmeno le lacrime di una mamma, il suo spendersi giorno e notte, per tutti questi giorni, per ottenere giustizia e ottenere una «condanna esemplare».

La malinconia cala come un drappo nero dopo la sentenza, quando tutto è compiuto e la porta di una cella si chiuderà nera e pesante, come il macigno che ha sul cuore, su quel ragazzo che trascorrer­à in carcere più anni di quanti ne abbia già vissuti. Pochi meno di quanti ne avesse vissuti Giogiò. La sproporzio­ne di questi due tempi — il tempo di una condanna e il tempo di due giovani vite — sono misura tragicamen­te perfetta dell’assurdità di questa vicenda. Chissà se l’assassino ha compreso l’abominio nelle sue azioni, chissà se capirà mai, se in un carcere minorile e poi in uno per adulti — quelli da cui è difficile uscire migliori di come si è entrati — sarà in grado di formarsi un’idea di sé e del suo gesto in modo da poter uscire, un giorno, e trovare il coraggio di chiedere quel perdono che non gli sarà mai concesso.

Che malinconia. Le due Napoli che si guardano allo specchio, ieri, in una sala del Tribunale per i minorenni, è un dipinto cupo alla Monsù Desiderio. La mamma di Giogiò, l’unica testimone dell’incontro, dice che il colpevole ha assunto un atteggiame­nto di sfida con lo sguardo, ma ha anche detto che alla fine non ha retto e ha abbassato gli occhi, non reggeva lo sguardo di una madre. Gli sguardi napoletani. A un semaforo

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come in un’aula di tribunale. Così pregni di insensata virilità, esercizio di un potere violento e inutile: alla fine perdono tutti in questo gioco insensato. Ma se negli occhi bassi dell’assassino ci fosse il germe di una speranza?

Non siamo capaci di vederlo, nemmeno vogliamo vederlo, forse non abbiamo nemmeno il diritto di vederlo. È questo orizzonte chiuso l’origine di ogni tristezza. Napoli allo specchio è un panorama senza linea di fuga, senza tramonto, né alba.

Lo scrittore triestino Claudio Magris una volta scrisse che «la malinconia nasce quando non si può volere, cioè tendere a una meta, perché non si sa e non si vuol sapere ciò che si vuole». Sono le parole giuste per definire lo smarriment­o provocato dalla scena di ieri in tribunale. Emessa la sentenza di colpevolez­za, non ci sono mete da raggiunger­e, non c’è alcuna tensione verso un obiettivo. Nessuno dei personaggi di questa tragedia sa più cosa vuole, né sa se ci sia qualcosa ancora da volere. Napoli divisa in due, Napoli spezzata in due. Napoli dilaniata. «Momenti di tensione» li definiscon­o le cronache dei giornali, ma la verità è che gli insulti della cerchia dell’assassino rivolti alla quella della vittima rappresent­ano il peggiore dei riti tribali a cui speravamo di non dover assistere, una sorta di ritorno allo stato di natura da cui nemmeno la Legge e il contesto in cui la legge trova la sua massima espression­e — un’aula di tribunale — riesce a salvarci. C’è qualcosa di furibondo e primitivo e mostruoso, qualcosa che sfugge al nostro controllo di uomini e donne ragionevol­i e civili nel modo in cui ci si divide in fazioni opposte anche al cospetto di una barbarie come quella perpetrata ai danni del povero Giogiò.

Bisogna rimediare a questa malinconia, bisogna che Napoli abbia un orizzonte.

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Vittima Il musicista Giovanbatt­ista Cutolo

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