Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Il tenero cappello rosso di Paperoga

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«Vabbè, è stato Eco che ha tirato giù il muro tra cultura alta e cultura popolare, vogliamo tirare su di nuovo anche questo muro?», provoco io. Se ne va. Peggio di così non poteva andare.

All’ultima ora entro in 5E. Inizio a parlare un po’ dell’influenza spagnola, quella del 1918-1919, quella che in Italia fa seicentomi­la morti, quasi quanto i morti al fronte. «Tra morti in guerra e morti per influenza scompare il 2% della popolazion­e italiana», preciso citando Barbero, «con la peste del Trecento, invece, era morto un italiano su due… è un gran migliorame­nto, in fondo…». «Che allegria!», commenta Cinzia Cute. Sbircio Daria che mantiene la sua faccia nera che più nera non ce n’è e poi faccio con le braccia un gesto come a spiegare che certe cose stanno così, bisogna accettarle, non è che ci si possa poi fare molto. «Quindi siamo impotenti, dobbiamo rassegnarc­i e tutto quello che ci capita… deve andare così! Giusto, prof ?». È il tono da oltretomba della voce di Daria ad avvertirmi che forse non ho scelto l’argomento migliore oggi per lei. Come ho fatto a non pensarci?

Ora davvero non so se queste ragazzine, quando stanno male, si caricano sulle spalle il dolore del mondo, la tragedia delle guerre, o sempliceme­nte soffrono per uno sguardo mancato, per una parola di scherno di un possibile fidanzato, per una qualsiasi altra inezia. Io davvero non lo so. E certo loro non stanno lì per parlarne a me, di queste cose. Però mi viene a volte di non lasciare andare queste facce e questi toni di voce, e così ora mi avvicino al banco di Daria, che chiude la fila sulla destra, vicino alla grande finestra. «Ricaptazio­ne della serotonina», suggerisce Saurone. Gli faccio cenno di tacere. «Daria», attacco, «questo dolore…». «Un giorno ti sarà utile», completa quel ficcanaso testa quadra, che magari ora vorrebbe parlarci del romanzo di Peter Cameron che lui ha letto e noi no, e che ha proprio questo titolo. «No», replico, «volevo dire che un giorno questo dolore di oggi ti sembrerà diverso, lo guarderai da lontano e ti sembrerà… diverso, sì, forse minore, non so». Le si accende lo sguardo. Sarà per questo che continuo. «E se la tua sedia è il tuo presente, quale è il tuo futuro in questa stanza?», le chiedo. Si guarda intorno smarrita e poi indica l’angolo vicino alla porta. Allora la prendo per mano e la conduco lentamente lì. Poi ci voltiamo e da questo futuro lontano ci osserviamo in questa mattina in 5E, il sole brillante fuori e un silenzio sospeso dentro, tutti all’improvviso pietrifica­ti. Non so cosa appare a lei, ma certo il mio cappello di lana rossa, quello di Paperoga, visto da qui, quasi mi fa tenerezza.

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