Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Russo Il successo di Call my agent «I mie modelli Totò e Fo»
Il fisico e la grande capacità di immedesimarsi nei personaggi ricordano il compianto Philip Seymour Hoffman, premio Oscar per «Truman Capote». Minuto, rotondo, versatile, tanto da passare da un ruolo un po’ sopra le righe come assistente nella serie Sky «Call my agent» a quello di un antieroe in bilico tra bene e male nel thriller «Eravamo bambini di Marco Martani (oggi in uscita nelle sale) senza perdere mai di credibilità. Il casertano Francesco Russo, trentun anni il prossimo maggio, un curriculum di tutto rispetto con molto teatro alle spalle, nel film è «Cacasotto», personaggio chiave che racconta ciò che è successo a un gruppo di amici che ritornano, con un carico di orrore e di violenza, vent’anni dopo.
Francesco come ha dato vita a questo eroe del male col nome da sfigato?
«Mi ha dato grandi possibilità emotive, a partire dalla trasformazione del cliché del nomignolo che gli è stato affibbiato da piccolo e che lui, alla fine, rivela essere infondato. Solo lui è rimasto nel paesino immaginario della Calabria, uguale a tanti paesi della provincia occidentale, vittime di un’estetica brutta, quella dell’ignoranza, dove la violenza materiale è la punta dell’iceberg di tanta violenza intellettuale. Mi ha colpito molto il modo in cui il film la rappresenta, anche in maniera molto dura».
Gli amici si rivedono per una vendetta e si sta quasi dalla loro parte. Non crede che possa essere diseducativo?
«Non so se i film debbano avere dei messaggi, Truffaut diceva «siamo registi, non siamo postini» e lo condivido. Questa è un’opera sulla violenza e sul male e in qualche modo ci fa sentire vicini ai giovani protagonisti, che incanalano la loro rabbia non nel perdono ma nella vendetta. È come una tragedia greca, che nel far vedere le colpe ha anche un effetto catartico per lo spettatore. Lo chiamo stupro intellettuale: un’opera ti deve “spaccare in due” la testa, farti pensare a film chiuso, parlarne dopo».
A lei è servito venire dalla provincia o è stato un limite?
«Recito da quando avevo cinque anni e ho sempre avuto il pallino di andarmene però il mio paese mi ha dato la possibilità di stare in scena, nelle compagnie amatoriali, in una libreria, a teatro. Per me è stata un’oasi felice».
Come ha iniziato?
«Recitando la famosa battuta “Vicienz m’è pat’a me” di Miseria e Nobiltà. Mio zio aveva tante videocassette di Totò e ogni giorno ne guardavo una, poi ho sempre cambiato modelli, passando a Fo, a Gaber, e cambio ancora».
In Call my agent ha incontrato grandissimi del cinema come Paolo Sorrentino. Com’è lavorare con loro?
«Mi ci metto accanto e cerco di imparare qualcosa. Sorrentino è simpaticissimo e molto professionale, Stefano Accorsi porta tanta autoironia e da Valeria Bruni Tedeschi ho imparato tanto: soprattutto quanto siano utili la fisicità e la libertà di improvvisare».
Ma è vero che il mondo degli agenti è così?
«Sì, anzi a volte quello della serie è persino più dolce. Credo che uno dei punti di forza del suo successo sia che ha un valore universale: chiunque lavori in un ufficio si può riconoscere in certe dinamiche».