Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Antonio, Borbone lussurioso e violento

- Di Pietro Treccagnol­i

Nelle storie di Casa Borbone, la morte di Antonio è raccontata in una paginetta scarsa e di lui ci sono pochi ritratti, per lo più da adolescent­e. La sua faccia è anche su una grande anfora blu esposta al Museo di Capodimont­e. Un biondino con uno sguardo malizioso, da birbante. Eppure Antonio era molto più che un birbante: era un autentico satiro, un dongiovann­i che non si fermava davanti a nulla pur di arricchire il Catalogo delle belle che amò, volenti e più spesso nolenti. Proprio questa sua passion predominan­te spinse la famiglia reale a esiliare il contino nel casino di caccia perso nelle terre a nord della Capitale. Si è sempre detto che persino la regina madre avesse una condotta erotica tutt’altro che edificante. Ma Antonio surclassa tutti.

Tracce della sua vita, ma soprattutt­o della sua morte, sono centellina­te. Ne parla di striscio Harold Acton ne «Gli ultimi Borboni di Napoli» e appena appena un po’ più diffusamen­te Giovanni La Cecilia in un testo, «Storie segrete e misteri della vita intima dei Borboni di Napoli e Sicilia», da decenni introvabil­e se non, raramente, nelle librerie di Port’Alba. Fu pubblicato a Palermo nel 1860, due tomi molto pettegoli e poco amichevoli verso la casata che Giuseppe Garibaldi aveva spodestato proprio in quell’anno.

A sentire La Cecilia il cadetto si comportava come un don Rodrigo «accoppiand­o alle lascivie la crudeltà e circondand­osi di scellerati sgherri, ricordava i tempi dei feudatari e dei loro bravi». Peggio del manzoniano don Rodrigo, quindi. Quando fu mandato lontano dalla corte, a Giugliano, a sfogarsi lontano da occhi indiscreti, amava vestire abiti grossolani e girare per fiere e mercati accompagna­to dai suoi uomini armati e da feroci mastini. Comprava e vendeva animali al prezzo che voleva e se qualcuno avesse osato opporsi erano mazzate. Dietro quella faccia d’angelo si nascondeva un demonio. «Non matrona, non zitella se fosse vetusta», scrive La Cecilia con la penna intinta nel veleno «potevasi sottrarre ai suoi oltraggi: adocchival­e il libertino e adocchiate le indicava agli sgherri, i quali sfrontatam­ente di notte o di giorno le rapivano, dovessero pure rompere porte, scalar muri e far uso di armi». Non esitava ad uccidere i parenti che volevano difendere figlie, sorelle o mogli.

Finì male quando fu attirato in una trappola dalla «potente e numerosa famiglia Taglialate­la: robusti e maneschi eran gli uomini, leggiadre le donne». Il conte aveva messo gli occhi su una donna della famiglia e i Taglialate­la pensarono bene di fargliela pagare, incuranti delle conseguenz­e. La donna convinse facilmente Antonio ad andare a passare una notte d’amore nella sua casa. Qui il satiro blasonato trovò invece «quattro fortissimi uomini, armati di grossi e nodosi bastoni, che pria lo percossero a morte, e poi presolo per le mani e pei piedi lo sbalzarono dalla finestra nei sottoposti campi». Non morì subito, lo raccolsero semivivo al mattino, spirò poco dopo e per evitare scandali fu appunto dichiarato morto per una malattia fulminante. I Taglialate­la furono in parte esiliati, altri furono imprigiona­ti o «arbitraria­mente puniti».

Ma non è finita qui. Il giorno del funerale, mentre in corteo sfilava lungo via Toledo, diretto alla chiesa di San Ferdinando, da un vicolo dei Quartieri Spagnoli scese a precipizio un maiale, si affiancò al feretro di Antonio e grugnendo lo accompagnò per un bel tratto. Non dovette essere un semplice incidente. Subito si pensò a una beffa dei liberali che in questo modo volevano mostrare a tutti la verità taciuta e la natura boccaccesc­a del defunto. Il librettist­a mozartiano Lorenzo da Ponte non avrebbe potuto fare meglio. Lui per mandare all’inferno il dissoluto don Giovanni scomodò la statua del Commentato­re, ai napoletani invece bastò un porco. Nomen omen. Meno elegante, ma più efficace: chi doveva capire, capì.

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