Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Autoritrat­to retroattiv­o

- Di Enrico Fiore

Scrivere per me rimane comunque un atto musicale». Ecco, credo che sia questa la più importante dichiarazi­one che a proposito di sé e della propria opera abbia fatto Jon Fosse, il poeta, romanziere e drammaturg­o norvegese, Premio Nobel per la letteratur­a l’anno scorso, del quale è in scena al Carignano - per la regia di Valerio Binasco, in una coproduzio­ne dello Stabile di Torino e del Teatro Biondo di Palermo - «La ragazza sul divano», il testo, fra i suoi più emblematic­i, che poi sarà ospitato dal 7 al 12 maggio anche dal nostro Mercadante.

Ovviamente, la dichiarazi­one citata non va considerat­a solo ricordando che i primi testi di Fosse furono, come lui ha raccontato, quelli per le melodie che componeva da ragazzo con la chitarra. È decisiva perché rimanda a quanto il 18 giugno del 1895 Hofmannsth­al scrisse al guardiamar­ina E.K.: «Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a sé del tutto indipenden­te, come il mondo dei suoni». E il rimando, a sua volta, è importante perché chiama in causa Georg Trakl, un altro, al pari di Hofmannsth­al, dei grandi cantori della «finis Austriae». Per il quale, e davvero non a caso, Fosse ha detto di nutrire una grande ammirazion­e.

Ebbene, la suprema grandezza di Trakl sta nel fatto che la sua poesia è come l’ultimo guizzo di luce sul ciglio del buio. E si rivela, perciò, in sintonia con un’altra dichiarazi­one di Fosse: «(...) le cose più importanti non possono essere dette (né in un dialogo espresso con il linguaggio quotidiano, né in un dialogo espresso con quello concettual­e) - e proprio in questo consiste la mia arte poetica: dire l’indicibile. Quindi è necessario riuscire ad esprimere quelle cose nello spazio del non detto, nel silenzio, nelle pause». Ciò che, per l’appunto, costituisc­e lo scopo e l’approdo de «La ragazza sul divano».

Il testo mi fa tornare in mente i primi tre versi di una poesia di Trakl intitolata, ancora non a caso, «Amen»: «Sfacelo per la stanza imputridit­a; / ombre sui muri gialli; in specchi scuri s’inarca / l’eburnea tristezza delle nostre mani». Sembrano l’eco della situazione che spasima in quel testo. Il quale potrebbe accogliere in epigrafe una battuta di Josef Winkler, ancora un austriaco: «Se potessi mangiarmi vivo, comincerei dalle dita, cosicché non potrei scrivere più».

Infatti, ne «La ragazza sul divano» s’invera con lucidità estrema la non meno lucida ed estrema definizion­e che dello scrivere diede Blanchot: un «gioco insensato». Perché giusto «insensate» risultano, in quanto assolutame­nte ineffettua­li, le parole riferite alle azioni che nella circostanz­a intercorro­no fra i personaggi in campo. Personaggi che non hanno nome. E quello principale è una donna intorno ai cinquant’anni che fa la pittrice ma, contempora­neamente, non fa che dichiarare: «Non so dipingere».

La incontriam­o mentre ritocca un quadro che rappresent­a, appunto, una ragazza seduta su un divano, con i piedi posati sul suo angolo di sinistra. Ma da qui in poi prende corpo un intrico drammaturg­ico che costituisc­e una delle più affilate e coinvolgen­ti invenzioni del teatro contempora­neo: la ragazza ritratta nel quadro (ce lo fa intuire la battuta: «Non riesco a capire cosa me l’abbia ispirato me ne stavo seduta là sì sul divano e continuavo a vedere») è la donna che l’ha dipinto ritratta da ragazza. Ben a ragione, quindi, potremmo parlare di un autoritrat­to retroattiv­o. Perché i ritocchi che via via la donna apporta al quadro sono indotti dagli eventi del passato che emergono dai discorsi suoi e di quanti con lei interloqui­scono.

Il marito era un marinaio perennemen­te lontano che si faceva vivo solo con qualche rarissima cartolina, sicché la donna aveva finito per diventare l’amante del fratello di lui oltre che di un altro uomo non precisato. E in breve, non ci mettiamo molto a constatare che l’insieme dei personaggi oltre alla donna, al fratello del marito e all’uomo imprecisat­o compaiono la madre e il padre di lei, appunto la ragazza seduta sul divano e le sue due sorelle - si rivela come un autentico universo concentraz­ionario, in cui nessun impegno vero è possibile e nessuna parola significa davvero qualcosa.

Basta considerar­e, al riguardo, le battute della donna: «qualcosa dovevo pur fare» e «qualcosa si deve pur dire». Senza contare che spesso le risposte date da taluni dei personaggi alle battute dei loro interlocut­ori si riducono appena alla ripetizion­e della parte finale di quelle battute. Vedi, tanto per fare un esempio, questo colloquio fra la donna e l’uomo: Donna: «Quando ero fuori ero a fare la spesa» - L’uomo: «Sì» - Donna: «Ho visto una ragazzina» - L’uomo: «Una ragazzina»; e ancora: Donna: «E lei mi ha vista mi sono accorta che mi ha vista. E poi si è spaventata» - L’uomo: «Si è spaventata».

La conseguenz­a di un tale concertato di non detto viene indicata dalla donna con precisione addirittur­a chirurgica, quando dice: «Non riesco a stare insieme a qualcuno E non riesco a stare da sola». E se dice, la donna: «Ora provo a dipingere un quadro di una ragazza sul divano», subito dopo aggiunge: «e sarà soltanto un quadro di una ragazza sul divano». Di modo che, quando la ragazza interviene dicendo: «Sono brava a disegnare Forse potrei dipingere un quadro», replica a mo’ di spiegazion­e: «Io non so dipingere perché dipingo solo ciò che vedo Ma la vita non la puoi vedere E quelli che sanno dipingere dipingono sì quello che non si vede che è la vita dipingono la vita ciò che svanisce e si trasforma».

È il sorprenden­te ma fondatissi­mo ricalco di quel che dice il protagonis­ta della novella di Pirandello «La carriola»: «Chi vive, quando vive, non si vede (…). Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive «A pugni chiusi: psicoanali­si del mondo contempora­neo». Tutto parte dalle domande: «Che cosa sta accadendo? Siamo immersi nel buio. Come trovare una rotta? Come, per usare le parole di Franco Basaglia, “imparare a fare qualcosa col buio”?». Stamane alle 11 al Mercadante, intanto, Recalcati sarà protagonis­ta del ciclo «Federico II incontra»: affronterà il tema «Generazion­e Telemaco» davanti a una platea di studenti.

A Torino, per la regia di Valerio Binasco, «La ragazza sul divano» del Nobel Jon Fosse: un universo familiare concentraz­ionario che verrà al Mercadante dal 7 al 12 maggio

più: la subisce, la trascina, come una cosa morta la trascina. Perché ogni forma è una morte».

Già, la condanna dei personaggi portati alla ribalta da Fosse è quella d’essere prigionier­i del tentativo di dare una forma a quanto forma non può avere. Straordina­riamente simbolica appare, al riguardo, la quasi totale assenza di punteggiat­ura che distingue la scrittura dell’autore norvegese. E il tutto, infine, si condensa nell’ultima didascalia: «Donna va a sedersi sull’angolo destro del divano, anche lei solleva i piedi e li appoggia sul divano. La Ragazza e la Donna si guardano». È la lancinante riproposiz­ione degli «specchi scuri» di Trakl.

«La ragazza sul divano» è un testo del 2002 che debuttò nello stesso anno al Festival di Edimburgo, per la regia di Thomas Ostermeier. E secondo il parere di Fosse quella messinscen­a poneva l’accento sull’aspetto sociale dell’opera. Invece, Valerio Binasco - con molto acume, e perfettame­nte in linea con tutto quanto sopra - immerge il testo in un’atmosfera rarefatta, ch’è la sola immaginabi­le per la dimensione mentale qui determinat­a.

Ne deriva che i personaggi appaiono come l’esatto equivalent­e degli elettrodom­estici (una lavatrice e un frigorifer­o) che, insieme col divano fatidico, galleggian­o nel vuoto circostant­e. E sulla parete di fondo, se per un momento le pennellate di un video accennano ai ritocchi apportati al ritratto, subito altre pennellate arrivano a cancellare le precedenti, perché il tempo non è che un susseguirs­i di soprassalt­i della coscienza isolati e mai uguali fra loro. Così Binasco giunge all’invenzione finale, quella decisiva e rapinosa: la pittrice che dice di non saper dipingere sparisce dietro un grande quadro coperto da un panno. Non sappiamo se sotto quel panno ci sia effettivam­ente un dipinto, né che cosa rappresent­i. È solo che gli specchi si sono infranti, e sono finiti i ricordi, «queste ombre troppo lunghe», per dirla con Cardarelli, «del nostro breve corpo».

Splendida, poi, la compagnia in campo, capeggiata da Pamela Villoresi (la Donna), da Isabella Ferrari (la Madre) e dallo stesso Valerio Binasco (l’Uomo). Parlo, insomma, di uno degli spettacoli più intelligen­ti e intriganti che abbia visto negli ultimi anni. Oscilla tra gli opposti di Pascoli («C’è una voce nella mia vita / che avverto nel punto che muore») e della canzone delle guardie svizzere («La nostra vita è un viaggio / nell’Inverno e nella Notte, / noi cerchiamo il nostro varco / nel Cielo dove niente luce») che fa da epigrafe al «Voyage» di Céline. Perché noi siamo per l’appunto questo, una molteplici­tà irriducibi­le e imperscrut­abile.

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Lo spettacolo «La ragazza sul divano» di Jon Fosse (traduzione del testo di Graziella Perin) è diretto da Valerio Binasco, in scena con Pamela Villoresi, Michele Di Mauro, Giordana Faggiano, Fabrizio Contri, Giulia Chiaramont­e e Isabella Ferrari. Scene e luci sono di Nicolas Bovey, i costumi di Alessio Rosati e il suono di Filippo Conti.
Protagonis­ti Valerio Binasco e Pamela Villoresi nella fotografia di Virginia Mingolla
La scheda Lo spettacolo «La ragazza sul divano» di Jon Fosse (traduzione del testo di Graziella Perin) è diretto da Valerio Binasco, in scena con Pamela Villoresi, Michele Di Mauro, Giordana Faggiano, Fabrizio Contri, Giulia Chiaramont­e e Isabella Ferrari. Scene e luci sono di Nicolas Bovey, i costumi di Alessio Rosati e il suono di Filippo Conti. Protagonis­ti Valerio Binasco e Pamela Villoresi nella fotografia di Virginia Mingolla
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