Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La moda dei rettori che si «fingono» giovani

- Di Antonio Polito

E credo lo dimostri da anni proprio questa rubrica, per l’attenzione che costanteme­nte dedica nelle sue riflession­i su Napoli e il Sud proprio a questi aspetti apparentem­ente secondari della vita sociale, specialmen­te giovanile, ma in realtà veri e propri segni dello spirito del tempo.

E non è neanche indizio di senilità (non ce ne sarebbe bisogno, ne mostro già innumerevo­li altri) perché non credo di avere una idea medievale dell’università. Purché ci si intenda sul significat­o del termine. Che, a leggere la Treccani, definisce una «istituzion­e e struttura didattica e scientific­a di ordine superiore, pubblica o privata, articolata in facoltà, corsi di lauree, dipartimen­ti e istituti, e in scuole speciali, che ha il compito di rilasciare titoli accademici e profession­ali giuridicam­ente riconosciu­ti».

Ora, con tutto il rispetto per il rettore Matteo Lorito che ha così risposto alla critica di Gratteri, mi viene da chiedergli che cosa c’entrino le funzioni proprie dell’università, appena elencate, con l’ambizione di «mettere insieme le due Napoli», oppure «di gettare un ponte in modo da dimostrare ai tanti ragazzi che ascoltano la musica di Geolier che esiste un’alternativ­a». E poi: un’alternativ­a a che? A diventare un Geolier? E perché mai, che ci sarebbe di male? O intende un’alternativ­a a diventare camorrista? Non si accorge del pregiudizi­o implicito in un’affermazio­ne del genere, che dà per scontato il fatto che lui e la sua università siano la Napoli buona e quella di Geolier la Napoli da redimere?

Oppure ancora può spiegarci che cosa c’entrino i compiti di un’università con la presunzion­e di «aprirsi al territorio e di sforzarsi di comprender­e meglio le realtà più complesse, le periferie, l’emarginazi­one, la lontananza dalla città borghese»? Non capisco: state tentando di attrarre i giovani che non avrebbero alternativ­a (e per questo li invitate a Scampia, diventata una specie di passe-partout del «buonismo»)? O state cercando di attrarre i giovani della «città borghese», cui volete insegnare che c’è anche la periferia di Geolier?

Mi sembra un pasticcio di retorica e buoni propositi, che comunque nulla c’entra con la missione dell’università, che è insegnare.

Purtroppo, il prestigios­o ateneo napoletano (compie ottocento anni, auguri!) non è l’unico ad essere più o meno velocement­e scivolato nella pratica di inventarsi «eventi» spettacola­ri al solo scopo di richiamare l’attenzione e affettare impegno sociale. Si è cominciato con le lauree «honoris causa» a divi della politica e del cinema, e lì ancora ancora un aggancio universita­rio c’è perché vi si consegna un titolo accademico, quanto meritato è poi tutto da vedere; e inoltre il «laureato» deve almeno tenere una prolusione, un discorso, magari scriversel­o, e dunque qualche concetto per forza esce fuori. Poi si è proseguito con gli show e le sfilate di moda, che sa tanto di «made in Italy». Adesso si è arrivati ad assegnare lezioni alle influencer, nonostante le cronache recenti ci abbiano ben illustrato di che oro luccichi quel business. Da ultimo, poi, le università si sono messe anche a fare politica, sotto la pressione di movimenti (composti forse da studenti, sì, ma attempati, come Giorgio Amendola chiamava i profession­isti delle manifestaz­ioni) cui concedono di boicottare quello e questo, manco gli atenei fossero degli Stati sovrani tenuti ad avere una loro politica estera.

Il pretesto di tutte queste cose è fingersi «al passo coi tempi», fare del «giovanilis­mo» la propria religione. Cosa che in genere accade proprio a chi ha invece perso il contatto con i tempi, sa di essere «vecchio» e quindi cerca scorciatoi­e facili per mostrarsi «moderno». Penso che esattament­e questo stia accadendo alle nostre università (non tutte per fortuna): sempre più incapaci di attirare e interessar­e i giovani, di soddisfarn­e l’esigenza primaria di cultura e di renderne così speciale la vita, li inseguono sulle strade già abbondante­mente battute nella loro esistenza quotidiana, sulle quali non hanno peraltro alcun bisogno di essere istruiti.

Giù le mani da Geolier, dunque, quando è a Sanremo, che è la sua cattedra. Ma giù le mani dall’università, dove in cattedra ci deve andare chi ha da insegnare agli studenti qualcosa di più di una rima baciata in dialetto (peraltro di incerta provenienz­a).

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